Brindiamo al Tax freedom day ma restiamo un Paese malato di Stato
23 Giugno 2010
Cin cin. Da oggi smettiamo di pagare le tasse, e cominciamo a guadagnare. E’ il 23 giugno, giorno della liberazione fiscale. Un giorno che, anno dopo anno, è sempre andato avanti, quasi mai indietro, sia coi governi che “le tasse sono bellissime”, sia con quelli che “mai metteremo le tasche negli italiani”. E’ una costante e forse è giusto così.
Il governo non è un’entità astratta, è un gruppo di persone che ha come scopo ultimo quello di massimizzare il proprio potere e la propria influenza. Sono solo due le condizioni che possono remare contro questa tendenza naturale alla bulimia pubblica: il passaggio di un “cigno nero” positivo, cioè di una leadership politica fortemente determinata ad affamare la bestia, come fu per Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Oppure, l’esistenza di oggettivi vincoli esterni per cui non si può fare altrimenti: sul fronte della spesa pubblica, Giulio Tremonti cerca di tagliare perché non può fare altrimenti (che poi lo faccia in modo efficiente o convincente, è un altro discorso).
La seconda condizione è quasi verificata, in Italia. L’invadenza dello stato – invadenza nel prelievo, nella spesa, nella regolamentazione – ha raggiunto livelli ormai insostenibili. Le scelte che, quotidianamente, le imprese sono costrette a compiere ne sono testimonianza. L’Italia, dicono le classifiche internazionali e lo dicono tutte, da qualunque fonte provengano e qualunque cosa misurino, è uno dei peggiori posti al mondo dove fare affari. Se il settore pubblico vive parassitariamente alle spalle di quello privato, il nostro paese è arrivato al punto di massima sopportazione, il punto in cui una crescita ulteriore ucciderebbe l’organismo ospite e, con esso, i parassiti stessi.
La competitività della nostra economia, la produttività del nostro lavoro, hanno bisogno di una riduzione drastica e immediata del peso dello Stato: un credibile e improvviso taglio di spesa, tasse e complicazioni normative varie. La transizione fa sempre degli scontenti, specie tra coloro che campano all’ombra dell’inefficienza: ma non si può pensare di chiudere gli occhi e tirare avanti perché il paese è stremato, finito, kaputt.
Quello che manca è una leadership politica convinta e capace, con poche e lodevoli eccezioni (tra i ministri, l’unico che pare veramente determinato a perseguire questa via è Renato Brunetta). E’ difficile spiegare perché, ma almeno due motivi è possibile rintracciarli. Primo: gli accidenti del caso, che agli americani ha dato Reagan, agli inglesi la Thatcher, a molti Stati ex sovietici ha regalato dei leader coraggiosi e illuminati, e a noi ha dato… bé, ha dato quello che abbiamo e che ci meritiamo. Secondo: appunto, abbiamo quello che ci meritiamo. L’elettorato italiano è fondamentalmente populista: pronto a chiedere meno tasse, meno pronto a chiedere meno regole (anzi, felice di chiederne di più, come nel caso degli ordini professionali), per nulla pronto ad accettare riduzioni della spesa, come dimostrano le reazioni scomposte alla manovra di Tremonti.
Il problema è, dunque, culturale e profondo, nonostante i guizzi di vitalità che occasionalmente si sono visti. L’exploit della Lega negli anni Novanta, il primo berlusconismo, l’immediato successo delle “liberalizzazioni” nella base del Partito democratico sono stati segnali incoraggianti, ma troppo esili e troppo discontinui. Gli italiani vogliono meno tasse, ma vogliono ancora di più conservare vizi e privilegi, e possibilmente conquistarne di nuovi. Per questo non ci scandalizziamo più di tanto che per più della metà del tempo lavoriamo per mantenere il baraccone pubblico. Siamo malati di Stato, e non potremo guarire finché non capiremo che quella che finora abbiamo ingoiato come una medicina, è la causa del male.