Brunetta apre al dialogo ma senza cedere ai ricatti della Cgil
30 Maggio 2008
Deve essere stata dura da digerire per Epifani sentire un ministro della Repubblica dire: “Le osservazioni al piano industriale entro 48 ore per email”. La definizione “piano industriale” in luogo dei più tradizionali e concertativi “protocollo”, “intesa”, “linee-guida” deve essere suonata come una provocazione.
Il messaggio, invece, è forte e chiaro: nel paese c’è attesa di riforme rapide ed efficaci della pubblica amministrazione, i cittadini e le imprese chiedono al governo servizi pubblici di qualità e non sopportano più che l’impiego pubblico goda di rendite, esplicite ed implicite. Si deve lavorare di gran lena, evitando di perdersi in trattative infinite e nei soliti riti bizantini.
Brunetta – che sa di aver dalla sua l’opinione pubblica e (ma conta meno) la benevolenza di alcune aree del Pd – ha volutamente calcato la mano. La Cgil, con un pretesto, ha abbandonato il tavolo e cercato di alzare il livello dello scontro. Le altre sigle confederali – un po’ per competizione intrasindacale, un po’, speriamo, per convinzione – si sono smarcate, ribadendo il loro interesse al proseguimento della trattativa e invitando la consorella a rientrare nei ranghi.
La Cgil ha sciupato l’opportunità di dimostrare di essere un sindacato che guarda al futuro e all’innovazione e non una forza protesa alla mera conservazione dello status quo. Ma tant’è.
In una economia moderna, il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori è fondamentale: nel mercato del lavoro il sindacato ha l’insostituibile ruolo di contendere all’imprenditore il salario e i guadagni di produttività, di fargli sentire il fiato sul collo, spingendolo all’innovazione continua di prodotto e di processo. Insomma, un “sindacato che fa il sindacato” è un fattore di innovazione e di benefica competizione – di “conflitto”, direbbe Marx – tra capitale e lavoro.
Nella pubblica amministrazione, il sindacato ha il delicato compito di “proteggere” i lavoratori dall’inefficienza della macchina e dalle intromissioni malevole della politica nella autonomia gestionale, di contrastare i soprusi dei fannulloni e lo svilimento della qualità del loro lavoro.
Rispetto alla PA, il sindacato italiano ha spesso disatteso questa responsabilità, scegliendo un comportamento ed un ruolo esattamente speculare. Ha privilegiato la quantità dell’occupazione alla qualità. Ha scelto l’egualitarismo, sempre e comunque, contro il riconoscimento del merito. Ha protetto le sacche di scarsa produttività abbandonando alla frustrazione molte storie individuali di eroica efficienza. Le retribuzioni degli impiegati pubblici sono mediamente allineate al settore privato e contrassegnate, negli ultimi anni, da una dinamica più favorevole ma ci sono settori i cui livelli salariali sono, a dir poco, avvilenti e pericolosamente demotivanti. Prendiamo la scuola: gli insegnanti italiani guadagnano tra il 40 e il 50 per cento in meno di quelli tedeschi. I sindacati hanno non solo consentito questo, ma in molti casi lo hanno voluto. Negli ultimi decenni, lo stipendio degli insegnanti ha riflettuto uno scambio tra basse remunerazioni e scarso impegno – poco in cambio di poco – che i rappresentanti sindacali hanno favorito, a scapito dei buoni docenti, dell’appetibilità della professione sui giovani e della qualità stessa dell’insegnare.
Tutto questo, i leader sindacali lo sanno perfettamente, Epifani incluso. E’ giusto invocare l’aumento del salario per chi lavora di più e meglio o pretendere che lo Stato investa nella formazione del personale. Ma non ci si può sottrarre dalle proprie responsabilità di fondo, “buttandola in caciara”, per salvare rendite di posizione e un modello di rappresentanza degli interessi non più difendibile.
Il Ministro Brunetta ha scelto comunque il dialogo, ma con una novità: prima si fissano gli obiettivi di efficienza, tutto il resto, aumenti salariali inclusi, dipende dai risultati.