Caduto Berlusconi, occorre salvaguardare il berlusconismo
15 Novembre 2011
Il vero nodo politico della fase attuale può così essere riassunto: è caduto Berlusconi o è finito il berlusconismo. Molti commentatori (per lo più quelli interessati) stanno infatti sentenziando in queste ore che con le dimissioni del Cavaliere non termina solo un governo ma si chiude una vera e propria era della politica italiana. L’era, appunto, del berlusconismo.
Sul punto però bisogna essere estremamente chiari, perché ne va del futuro della nostra democrazia. Ebbene che cosa è poi questo benedetto berlusconismo? In realtà non l’abbiamo ben capito. O meglio, noi abbiamo una nostra idea di cosa sia, ma temiamo che in giro ci sia parecchia confusione. Confusione creata da analisi superficiali e alimentata da chi spera di ricavare qualche rendita di posizione dalla polemica contro il lascito politico di Silvio Berlusconi.
E’ chiaro che se per berlusconismo si intende una fase politica dominata da un leader plurimiliardario, cresciuto nel mondo dell’impresa e dei media, atterrato in politica come un alieno nel giro di 48 ore. Se per berlusconismo si intende un premier fuori dagli schemi, che scandalizza le compassate diplomazie internazionali raccontando barzellette e facendo il gesto delle corna. Se per berlusconismo si intende il codazzo di cortigiani e starlette che circondava il Presidente del Consiglio con l’inevitabile seguito di pettegolezzi e fumose inchieste giudiziarie. Se per berlusconismo si intende tutto questo, ebbene è chiaro che caduto Berlusconi sarà finito anche il berlusconismo. E la cosa non ci creerebbe particolari problemi, visto che tali aspetti della vicenda berlusconiana erano legati strettamente alla persona Silvio Berlusconi e li abbiamo accettati solo per tale ragione.
Ma una simile lettura del berlusconismo è evidentemente superficiale e faziosa. Se proviamo ad andare appena un po’ più in profondità ci accorgiamo che tali aspetti, molto visibili e molto discussi, sono in realtà meri epifenomeni. Per riprendere un po’ di “sano” pensiero marxista potremmo dire che sono dati meramente sovrastrutturali. Il dato strutturale del berlusconismo è tutt’altro. Berlusconi in meno di vent’anni ha rivoluzionato la politica italiana non solo e non tanto nei suoi contenuti (rispetto ai quali anzi, ha fatto meno di quel che ci aspettavamo da lui) ma soprattutto nei metodi e nello stesso linguaggio.
Berlusconi è stato il primo ad intuire che il vecchio modello della democrazia dei partiti che in Italia sopravviveva identico a sé stesso dal crollo del fascismo era ormai un vecchio arnese del tutto inadatto a fornire risposta alle domande di governo di una società profondamente cambiata. E’ stato il primo ad intuire che nella società italiana contemporanea l’unica strada per tentare di dare un senso autentico alle dinamiche politiche era riuscire a costruire un legame diretto tra l’opinione pubblica e le leadership politiche. E’ stato il primo ad intuire che il crollo del muro di Berlino cambiava profondamente i confini e le regole di ingaggio sul ring della politica e che, dopo di allora, non sarebbe mai più stato possibile governare il Paese stando immobili al centro come era riuscita a fare per oltre quarant’anni la Democrazia Cristiana. E’ stato il primo, in sostanza, a dar vita a quella democrazia degli elettori che, vituperata come deriva plebiscitaria dagli intellettuali politicamente corretti, è in realtà pratica consolidata ormai da diversi anni in tutte le democrazie avanzate.
Ebbene, è proprio questo cambio di paradigma politico il vero oggetto dello scandalo del berlusconimso. La democrazia degli elettori è molto più liquida e veloce di quella dei partiti. Mette in continua discussione le rendite di posizione dei partiti e complica dannatamente la vita di chi vive all’ombra della politica ma non assume mai responsabilità e visibilità. Rende molto più ardua e più instabile la penetrazione istituzionale degli interessi costituiti, delle corporazioni e dei poteri forti (che Iddio mi perdoni se per mera comodità uso questa orribile locuzione). E, l’assedio del quale è stato fatto oggetto Silvio Berlusconi a partire dal 1994, prima ancora che per ragioni di merito politico, prima che per il legittimo desiderio di prenderne il posto (semmai con metodi poco legittimi), è stato motivato dalla paura che la rivoluzione del berlusconismo si consolidasse e rendesse impossibile un qualunque ritorno al passato.
Semmai occorre notare una situazione paradossale. Forse i diretti interessati non avranno piacere nel sentirselo dire, ma oggi l’arena politica è piena di partiti berlusconiani. Che altro sono infatti il partito di Pierfedinando Casini, quello di Gianfranco Fini o di Nichi Vendola? O quello personal-familistico del più feroce avversario di Berlusconi, Antonio Di Pietro? Lo stesso Pd che pure mantiene un vago sentore da Terza Internazionale è ormai assediato da piccoli berluschini interni (vedi Renzi) o esterni (Di Pietro, Vendola, Grillo) ed è probabile che se vuole sopravvivere dovrà, prima o poi, compiere anch’esso il grande passo. Ma ancorché berlusconizzati molti di questi partiti continuano a vaneggiare un ritorno all’età dell’oro, se non altro nella speranza che un disfacimento della Seconda Repubblica gli porti in regalo frammenti di consenso e spezzoni di potere in libera uscita. Ma è proprio per questa ragione che sarebbe importante che la parte consapevole del PdL (perché è evidente che c’è ne è anche una del tutto inconsapevole) si adoperi per evitare che questo scempio possa essere compiuto. Per evitare che lancette dell’orologio del Paese possano essere riportate al 1993. Il ché vorrebbe dire salutare definitivamente qualunque speranza di salvare il Paese dalla crisi attuale e rilanciarlo nel consesso delle nazioni più avanzate. Caduto Berlusconi, occorre, detto in parole povere, salvaguardare il berlusconismo.