Caro Fini, il federalismo è l’occasione per voltare pagina
27 Aprile 2010
Gianfranco Fini è diventato, a quanto sembra, un avversario della riforma federalista dello stato che fa parte del programma del governo. Sembra sostenere che essa danneggia il Sud, essendo voluta dalla lega Nord. Si vocifera che Fini potrebbe allearsi con Lombardo per formare, assieme a lui, il famoso partito del Sud. Si tratta di una ipotesi estremamente improbabile. Infatti è evidente che Fini vuole svolgere il ruolo di capo di una corrente, sia pure non organizzata, all’interno nel Pdl. E non ha alcuna ragione per costruire, insieme a Lombardo, un partito del Sud. Infatti ciò comporterebbe che egli sposti il suo epicentro elettorale all’Italia meridionale e rinunci all’elettorato del Centro Nord. Inoltre, un partito del Sud appare una ipotesi politica improbabile, in quanto il Sud è composto di diverse Regioni, con diverse realtà e non è tutto legato da una storia comune. La Sardegna non è mai stata governata dai Borboni di Napoli. E Palermo e Napoli furono due capitali, con interessi fra loro divergenti, di un Regno delle Due Sicilie da cui altre regioni meridionali si sentivano oppresse.
Ma resta il fatto che Fini ritiene che la riforma federalista sia pericolosa per la nostra finanza pubblica e che essa sia una minaccia per il Mezzogiorno. Per Fini la scelta federalista di Berlusconi e del Pdl sarebbe dovuta al fatto che al Nord il Pdl sarebbe diventata una fotocopia della Lega, che propugna il federalismo fiscale. Fini tende anche ad affermare che il progetto federalista incrina l’unità dell’Italia e contrasta con la coesione nazionale.
Mi sia consentito fare una osservazione banale. Il federalismo, compreso quello fiscale, in Italia, non è una scoperta della Lega Nord, che anzi sino a qualche tempo fa era a favore di una quasi secessione della “padania”. Esso era la forma di governo prevalente fra molti di coloro che, nei primi decenni dell’Ottocento furono fautori della unità nazionale. Basti citare fra i padri del Risorgimento, Carlo Cattaneo per il pensiero politico ed economico repubblicano laico e Vincenzo Gioberti per il pensiero politico cattolico. E anche dopo l’unificazione nazionale, il pensiero federalista non si estinse.
E’ poco noto il fatto che Cavour non fosse affatto favorevole a un modello centralista quale quello che in seguito si configurò. Egli, ritenendo che un sistema centralista non fosse in grado di tenere conto della grande diversità fra le regioni italiane, nel 1861, appena costituito il Regno d’Italia, chiese al Ministro degli interni Luigi Carlo Farini di elaborare un progetto di legge per la introduzione delle Regioni. E Farini lo disegnò attribuendo alle Regioni gran parte delle competenze di quattro Ministeri: Interni, Agricoltura (poi diventato Agricoltura, Industria e Commercio), Lavori Pubblici ed Istruzione. Marco Minghetti succeduto a Farini nel compito, portò avanti quel disegno di legge. Ma con la morte di Cavour, che ne era il vero promotore, esso rimase nel cassetto.
Non è esatta neanche la tesi che secondo il pensiero meridionalista il federalismo sarebbe incompatibile con gli interessi del Mezzogiorno. Infatti già nel primo decennio del Novecento, quando la questione meridionale venne in primo piano nel dibattito politico e culturale nazionale, emerse una robusta corrente di meridionalismo federalista, costituita da liberal-democratici, liberal socialisti, pensatori e politici di sinistra come Napoleone Colajanni, Gaetano Salvemini, Ettore Cicciotti, che riprendeva in nuovi termini il federalismo di Carlo Cattaneo. Su un altro versante emerse, poco dopo, il pensiero federalista di Luigi Sturzo, leader del neonato partito popolare. Si riproduceva così , in termini nuovi, nel Mezzogiorno, la duplice linea federalista del Risorgimento di Cattaneo e Gioberti. Si osserverà che, in entrambi i casi, nel primo Novecento, si trattava di dottrine e movimenti politici democratici ispirati a idee progressiste. La posizione anti federalista era soprattutto appannaggio dei conservatori. E la questione si ripropone anche ora con tale prospettiva.
Il federalismo costituisce, anche per il Mezzogiorno, l’occasione per voltare pagina, uscire dal piagnisteo assistenzialista, smettere di rimanere attaccato alla mammella dello Stato, cercare di gestire con autonomia il proprio destino. Ciò nel quadro di una unità nazionale possibilmente rafforzata dal sistema presidenzialista con una sola camera per le competenze nazionali e una seconda per la rappresentanza delle Regioni, competente per le questioni di loro comune interesse.
Del resto non c’è già una forma di federalismo, nel Mezzogiorno, con le due Regioni autonome, Sicilia e Sardegna? Si può forse supporre che il partito federalista auspicato dal governatore della Sicilia, Lombardo, intenda fare a meno, per la Sicilia, della autonomia regionale e alle competenze fiscali che ciò comporta?
Non è, d’altronde, affatto vero che il disegno attuale di federalismo fiscale contrasta con i principi di coesione nazionale. Infatti esso comporta un fondo perequativo a favore delle Regioni povere alimentato con le risorse delle Regioni ricche, con il compito di consentire che esse, per le competenze fondamentali loro attribuite, in particolare per la sanità e per l’istruzione, possano assicurare ai loro cittadini prestazioni conformi, almeno, agli standard minimi nazionali. Da un lato ciò comporta di collegare i trasferimenti alle Regioni a minor reddito alla effettuazione di servizi conformi agli standard in questione, evitando sprechi ed erogazioni immotivate. Dall’altro lato implica che sarà garantita l’equità orizzontale, fra aree a diverso grado di sviluppo. Certamente nella determinazione di questi standard e del fondo perequativo, possono sorgere dei problemi. Ma attualmente la grande maggioranza delle Regioni meridionali è governata da giunte guidate da governatori del Pdl. E poiché i decreti attuativi del federalismo sono discussi ed approvati nella Conferenza stato-Regioni, spetta a questi governatori il compito di tutelare gli interessi del Mezzogiorno.
Non c’è, dunque, bisogno di una nuova corrente del Pdl per realizzare un federalismo in cui le Regioni del Mezzogiorno possano auto gestirsi, in un quadro di coesione nazionale, per altro con un sistema per cui il principio di equità si combina con quello di efficienza. Quando, poi, Gianfranco Fini dice che il Pdl sostiene il federalismo fiscale perché è diventato una fotocopia della Lega Nord, sbaglia di grosso. Una finanza pubblica conforme all’economia di mercato ha bisogno di una struttura federalista, per la sua piena realizzazione. Lo si legge nei testi teorici e lo si vede negli stati federalisti: dagli Usa, alla Svizzera, alla Germania.
Dato che il Pdl professa tesi economiche di economia di mercato, è logico che sostenga il federalismo fiscale. Fra la sua ideologia e il suo programma, in questa importantissima materia e quella della Lega, c’è una naturale coincidenza. Se vi è questa alleanza non è per un caso, o per una cattura di Berlusconi da parte di Bossi (ipotesi molto impriobabile curiosa, dava la estrema difficoltà di ingabbiarlo) ma per una solida ragione. E i tre stati citati mostrano che federalismo e senso dell’unità nazionale non sono affatto in contrasto. Ovviamente ci sono modi diversi di configurare e attuare il federalismo fiscale. E qui è naturale che ci siano differenze, ma i principi guida non possono che essere comuni. Ossia in termini semplici, se le imposte sono il prezzo dei servizi pubblici e non una taglia o un dovere stabilito dal dirigismo statale, è logico che si debba cercare il maggior collegamento possibile fra imposte e servizi pubblici. E se la scuola o la sanità sono servizi regionali e locali, pagati con imposte di origine e possibilmente di gestione regionale e locale, c’è più collegamento fra imposte e tali servizi piuttosto che se le imposte per pagarli vanno in un grande pentolone statale e il mestolo con cui si tirano fuori le spese per le varie regioni ed enti locali è nelle mani dello stato.
Col federalismo il contribuente paga i suoi tributi più volentieri (o meglio meno malvolentieri) e c’è anche maggior incentivo a controllare le spese e le evasioni fiscali. In Italia, poi, siamo a mezza strada, con un sistema che non è né carne né pesce. La sanità è quasi tutta regionale e si paga in gran parte con l’Irap, imposta regionale. Molte spese, nell’istruzione, sono per una parte statali (quasi tutto il personale insegnante) e per l’altra regionali e locali (edifici e loro gestione, scuola professionali, asili nido, aiuto aglio studenti etcetera) con dispersione e confusione di competenze. Un tema che sta affrontando il Ministro Calderoli è chi si deve occupare di che cosa: lo stato, la regione, il comune, la Asl etcetera? Il federalismo serve anche a semplificare questo guazzabuglio dirigista.
Un altro tema su cui sta discutendo la Conferenza stato-Regioni è l’attuazione del federalismo del demanio: cioè il passaggio di beni demaniali statali alle Regioni ed enti locali. Il demanio dello stato è molto male utilizzato perché l’autorità centrale non ha gli occhi dappertutto. Il federalismo serve per valorizzarlo. Fini però obbietta che l’attuazione del federalismo fiscale, in questo periodo, comporta grossi rischi per la finanza pubblica. Gli esempi che ho fatto sopra mostrano che non è vero che attuare il federalismo adesso comporta per forza di essere imprudenti. Del resto non si può tacciare Tremonti di imprudenza, ed è a lui che compete l’attuazione del federalismo fiscale. La devoluzione fiscale, La riforma federalista può dare un impulso alla nostra economia ed accrescere la competitività delle nostre imprese. Prendiamo la riforma dell’Irap. Essa consiste nel trasformarla in due tributi una imposta sul reddito lordo delle imprese in sostituzione della parte di Irap che grava sui profitti lordi di ammortamenti e sugli interessi passivi e un contributo sanitario regionale, in sostituzione della parte di Irap che grava sui costi del lavoro. Ciò darà alle Regioni una maggiore autonomia di manovra delle aliquote dei due tributi, e di controllo delle evasioni, rispetto a quel che sia possibile con l’Irap. Sarà così possibile avere un aumento di gettito senza aumento di aliquote. D’altra parte, il contribuito sanitario regionale potrà essere detratto dall’imponibile dell’Irpef e dell’imposta sulle società come costo di produzione, con una riduzione della pressione fiscale sulle imprese, in relazione al fatture lavoro. E ciò senza comportare una perdita di gettito per le Regioni. L’onere a carico del bilancio statale, che si può stimare in 5 miliardi, potrebbe essere spalmato su due esercizi finanziari e la copertura potrebbe essere trovata con limitate economie di spesa.
Un’altra misura di anticipazione del federalismo fiscale è la adozione, per i redditi dei fitti delle abitazioni di proprietà di persone fisiche, di una aliquota secca del 20% in luogo della attuale tassazione con l’imposta personale progressiva. Il sommerso edilizio è ingente e la prassi di fare contratti di affitto con una cifra inferiore al vero, con pagamento della differenza in nero è largamente diffusa. Questa imposta secca del 20% che potrebbe essere inizialmente applicata ai contratti di affitto con cosiddetti patti in deroga, renderebbe conveniente l’emersione degli affitti in nero. E la riduzione di gettito derivante dalla riduzione di aliquota media, si potrebbe auto finanziare. La devoluzione alle Regioni del nuovo tributo, nel quadro del federalismo fiscale, darebbe un incentivo a queste a controlli del sommerso edilizio, mediante le informazioni che esse hanno, tramite le loro competenze urbanistiche e mediante la collaborazione degli enti locali. Nello stesso tempo, la riduzione dell’onere fiscale sugli affitti può generare una spinta all’investimento nell’edilizia abitativa. Gli esempi si possono moltiplicare.
Il federalismo fiscale non è una minaccia agli equilibri della finanza pubblica, se la sua attuazione è effettuata con senso di responsabilità, nel quadro di una riduzione della pressione fiscale e del miglioramento dei sistemi di accertamento. E’ una innovazione positiva, di cui l’Italia ha bisogno. Chi guarda al futuro non può attestarsi nella mera conservazione del passato.