Caro Fini, staccando adesso la spina al Governo la stacchi anche all’Italia
09 Novembre 2010
L’ attività politica ha i suoi calendari che hanno comportato – non mi è del tutto chiaro il perché – che Gianfranco Fini facesse la convention del suo nuovo movimento politico, denominato Fli, fra il 5 e il 6 di novembre, mentre in parlamento è ancora in corso la votazione sulla legge di stabilità.
Le ragioni del dissenso finiano, senza bisogno di grandi introspezioni sono due, crescenti in modo concomitante. La prima è che l’ex An si è immersa nel Pdl senza conservare le caratteristiche di una corrente, come presumibilmente il suo leader pensava. E quindi egli ne è rimasto deluso. E con lui coloro che a ciò ambivano e che hanno preso questo fenomeno come una sorta di congiura dei “colonnelli”. Ma per l’accaduto vi è una ragione che non ha a che fare né con le congiure politiche, né con le liti in famiglia (quella aennina).
Per gran parte degli esponenti di questo partito e della sua base non c’erano chiare differenze negli obbiettivi economici e politici rispetto a Forza Italia, in cui convergevano vari orientamenti simili: liberal cattolici, liberal socialisti, liberali con più o meno grandi componenti sociali. Non essendo sempre al corrente della appartenenza dei vari deputati e senatori o consiglieri o assessori regionali a uno o all’altro partito della coalizione della Casa della libertà, mi è sempre stato difficile distinguere quelli di An da quelli di Forza Italia; non li avrei saputi incasellare nell’uno o nell’altro partito in base alle scelte e alle opinioni economiche e politiche. E credo che ciò accadesse anche al resto della gente. Evidentemente la stessa difficoltà di distinzione è emersa per molti degli ex AN una volta entrati nel Pdl, dopo essere stati nella coalizione della “Casa della Libertà”.
Il fascismo da molto tempo non esiste più, e identificare AN con gli ex fascisti, maturati alla nuova realtà democratica, è diventato culturalmente sempre più assurdo. Semmai una parte dei “fliani” si possono classificare come dannunziani alla ricerca di movimento e di conquista e creazione del futuro. Si poteva essere tentati di sostenere che nei "fliani" c’è una idea nazionale che non hanno gli (altri) appartenenti al Pdl. Ma come sostenere che ci possa essere una distinzione, fra i provenienti da AN nel PDL, rispetto agli altri, con riguardo all’idea della unità e dignità nazionale, dato che l’altro partito confluito nel PDL si chiamava “Forza Italia”? Ma qui si perviene alla seconda ragione che ha innescato la reazione di Fini e dei politici confluiti in Fli, che è forse la più significativa: la rivalità nei riguardi della Lega Nord , diventata così importante nel IV governo Berlusconi. E ciò nonostante che avesse “tradito” la Casa della Libertà del 2004 facendone crollare il governo di legislatura prima che esso si consolidasse, e avesse perciò condannato tale nuova forza politica, di cui Fini era cofondatore con Berlusconi, all’opposizione per quasi sette anni.
Al cofondatore e a coloro che avevano intrapreso il cammino con lui, ha dato enorme fastidio la attuale priorità della attuazione della riforma federalista.
Il PDL è apparso a Fini e ai suoi “succube” della Lega in quanto ha accettato questa priorità. Ma ciò non è così innaturale, come poteva sembrare a Fini, in quanto il federalismo appartiene alla matrice cattolica liberale e sociale da Rosmini e Sturzo in poi. Appartiene alla concezione liberale dell’economia di mercato. E alla tradizione del socialista riformista-liberale: le tre anime dell’ex Forza Italia confluita in CDL. E c’è anche una ampia corrente federalista meridionalista.
Ma questa emergente importanza della Lega Nord ha suscitato rivalità e gelosie in chi riteneva di avere un diritto di primazia nel centro destra per le ragioni storiche della primogenitura e della “antica fedeltà”.
Ciò ha generato uno “scontento” di varia natura che si è saldato con quello dei “nostalgici di AN” come partito movimentista, giovanilista, che non si ritrovavano in un partito come il Pdl. E non a caso vi si è associato un ex radicale come Della Vedova, anche lui proveniente dal movimentismo, sia pure d’altro genere. Ne è nato un nuovo partito politico, ancora alla ricerca di un suo amalgama, che alcuni erroneamente immaginano antitetico al centro destra, mentre è sostanzialmente una riedizione ambivalente di AN: da un lato orgogliosa della propria storia con il cui patrimonio ideale (e anche finanziario) ha compiuto la sua “traversata nel deserto”, dall’altro lato ambiziosa di “mete nuove”, di “rinascita”.
AN, come questo nuovo soggetto politico, aveva più anime, che Fini sapeva tenere assieme: quella di vera destra, quella sociale e sindacale, quella imprenditoriale soprattutto orientata alla piccola e media impresa, quella più liberale e quella più dirigista quella meridionalista e quella nordista, quella laica e quella cattolica. Tutte alla ricerca di valori identitarii e, insieme, di cose nuove. Che nel “Manifesto dell’Italia” lanciato nella convention umbra, sono per altro meri luoghi comuni e, spesso, scatole in attesa di contenuti specifici. E ciò è ovvio perché riflette la difficoltà di dire cose nuove dovendo scegliere fra obbiettivi fra loro in conflitto.
Il premier inglese Cameron sta tagliando gli eccessi dello stato del benessere, che è diventato stato del malessere. Alla luce di ciò la frase del Manifesto “Un Italia solidale, attenta ai più deboli e agli anziani” andrebbe meglio conciliata con la frase “Un Italia competitiva nel mondo, aperta al mercato e alla concorrenza”. E non basta certo a farlo il richiamo alla sussidiarietà all’associazionismo, al volontariato. Gli esempi possono essere moltiplicati.
AN aveva come collante una vicenda storica, una organizzazione consolidata, una macchina politica, mentre la nuova aggregazione ancora non è consolidata. Da qui l’urgenza di una convention fondante. Dalla quale è emersa come collante non il Manifesto per l’Italia, probabilmente mantenuto allo stato vago per la difficoltà di mettere insieme istanze eterogenee – e non un assieme di indicazioni positive – ma un obbiettivo comune negativo, di avversione a qualcosa e a qualcuno. Ciò secondo la migliore tradizione per cui ci si salda insieme quando si ha un comune nemico. In questo caso il nemico comune è la attuale coalizione a due del governo Berlusconi.
Ed eccola richiesta del leader di Fli al premier Berlusconi di dimettersi da Presidente del consiglio, alla ricerca di una nuova maggioranza di centro destra, di cui dovrebbe fare parte oltreché il nuovo movimento capeggiato da Fini, anche l’UDC guidata da Pier Ferdinando Casini.
Nonostante che importanti editorialisti politici come Pier Luigi Battista ritengano che questa sia una straordinaria novità, tanto da segnare la chiusura di un’era e l’apertura di una nuova nella vita politica italiana, a me, come uomo della strada, appare una riedizione di quello che accadde alla coalizione di centro destra guidata da Berlusconi per tre anni, 10 mesi e 12 giorni nel periodo dal 11 giugno del 2001 al 23 aprile del 2005 , che entrò in crisi quando Fini e Casini chiesero e ottennero le dimissioni di Giulio Tremonti "troppo vicino alla Lega Nord" e "non abbastanza dinamico".
La vicenda, come è noto, finì male anche dal punto di vista finanziario e si dovette richiamare Tremonti per rimettere insieme (alla meglio e in fretta) i cocci rotti e la borsa dei quattrini bucherellata.
Il centro destra dopo avere perso tempo, perse di credibilità e perse le elezioni. Ma la storia non si ripete. Sarebbe stato meglio che la convention di Fli non avvenisse ora, ma dopo la approvazione della legge finanziaria, per lasciare alla politica il campo libero per i suoi confronti e le sue verifiche, di nuovo o vecchio conio che siano. Silvio Berlusconi non può dimettersi ora, perché le esigenze della politica pura, sono sovrastate da esigenze finanziarie pressanti che impongono di approvare la legge di stabilità che ha sostituito la legge finanziaria. Senza il voto favorevole alla legge di stabilità l’Italia, che ha il più alto debito pubblico del mondo in rapporto al PIL entra in crisi. Berlusconi ha il dovere di restare. E chi staccasse la spina a questo governo adesso, staccherebbe la spina alla stabilità della nostra nazione.