Caro Polanski, per scovare il marcio non c’è bisogno di andare in America

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Caro Polanski, per scovare il marcio non c’è bisogno di andare in America

25 Settembre 2011

Carnage di Roman Polanski ha una doppia natura. Una superficiale e l’altra assai più complessa. Partiamo dall’impressione immediata ricavata dalla visione. Nulla da eccepire: è un film perfetto, di rara difficoltà stilistica, poiché girato integralmente in un appartamento. Ecco l’inizio della storia, mostrata da lontano, priva di parole.

Vediamo un gruppo di ragazzini intenti a giocare. Poi due di loro cominciano a discutere, spintonandosi. All’improvviso uno sferra un colpo con un bastone sul volto dell’altro, atterrandolo. Stacco. Ci troviamo in un elegante appartamento newyorkese, a Brooklyn. I genitori dell’aggressore si sono recati a casa dei genitori dell’aggredito per appianare, con civiltà e buona educazione, l’incresciosa situazione. Il ragazzo colpito ha avuto un trauma, e rischia di perdere due denti. Ma in definitiva non è poi così grave. Le due famiglie sono benestanti. I padroni di casa Longstreet (Jodie Foster e John Reilly) si aspettano più che altro un risarcimento morale, poiché i danni materiali sono coperti dall’assicurazione. A offenderli è stato il gesto inspiegabilmente violento, non gli effetti procurati. I genitori dell’aggressore, i Cowan, coppia economicamente e culturalmente più elevata (Kate Winslet e Christoph Waltz), sulla difensiva, cercano di venire incontro alle richieste della parte offesa. Si intuisce che non avevano nessuna  voglia di recarsi a quell’incontro.

Ma le regole della corretta convivenza, e soprattutto il sentirsi comunque responsabili del gesto sbagliato compiuto dal loro ragazzo, li ha spinti al gesto conciliante. Sarebbe stato meglio staccare un assegno, e chiuderla lì. Ma un atto così materiale avrebbe irritato non poco i Longstreet. Quindi obbligo di parlare, smussare gli angoli, prendere un caffè e un pezzo di torta, fingere cortesia. Questo teatrino del “politicamente corretto”, parola dopo parola, caffè dopo caffè, bicchiere di whiskey dopo bicchiere di whiskey, è destinato a saltare fragorosamente. Inizia così, lentamente e inesorabilmente, un gioco al massacro.

Prende dunque corpo la carneficina (nutrita di sole parole, scaricate come pallottole) del titolo. Gli uomini sono quello che sono, anche se posseggono case, auto, vestititi, difformi dalla loro autentica natura. A rompere il clima non idilliaco, pur se cortese, dell’incontro, serviva un fatto banale. Che arriva: la signora Cowan ha un improvviso quanto incontenibile conato di vomito, che finisce per depositarsi sul tavolo dove la signora Longstreet tiene alcuni bei libri d’arte, impiastricciandoli di residui maleodoranti. La bomba è esplosa, con precisione chirurgica (non solo narrativa, ma anche valoriale) e da quel momento l’incendio delle recriminazioni (sociali, sessuali, professionali, ideologiche, caratteriali) divampa. Saltano maschere, buone maniere, toni dimessi, vocaboli appropriati. Prorompono tormenti e debolezze, frustrazioni e insoddisfazioni.

Roman Polanski ha trasportato sullo schermo il testo teatrale della franco-iraniana Yasmine Reza (Il Dio del massacro, pubblicato da Adelphi), lasciando l’ambientazione parigina per rifugiarsi in quella, più adatta, di New York. Se rimanessimo alla superficie estetica poco o nulla ci sarebbe da aggiungere. Del resto quando sulla scena ci sono attori come Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John Reilly (solo quest’ultimo non ha vinto ancora un premio Oscar, e per puro caso), e dietro la macchina da presa c’è Roman Polanski, è quasi impossibile sbagliare.

Dovremmo però accontentarci della superficie. Ma, come dicevamo, Carnage nasconde ben altro significato. Polanski porta a ebollizione falsità, ipocrisia, corruzione, ferocia, della buona borghesia americana, ben celata nelle costose mura a due passi da Manhattan. È questa l’America? È così mal ridotto il sogno americano? In realtà assistiamo all’ennesima incomprensione degli europei per l’America, cominciata nei primi due decenni del secolo passato, quando i francesi colti denunciavano il cancro americano. Il cancro ce l’avevano a casa (fascismo e comunismo) ma non lo vedevano. E il cancro oggi ha il volto del relativismo, del nichilismo, dell’incapacità di distinguere il bene dal male. Queste metastasi sono annidate da sempre nel cinema cosmopolita di Roman Polanski. Non lo hanno mai abbandonato dagli anni della giovinezza polacca. Certo anche l’America è afflitta da eguali malesseri morali. Sarebbe stato meglio però restare alla cultura di provenienza.