Caro Veltroni, lei il coraggio ce l’ha, è la paura che la fotte

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Caro Veltroni, lei il coraggio ce l’ha, è la paura che la fotte

25 Agosto 2010

Caro onorevole Veltroni, abbiamo letto con interesse la sua lettera all’Italia e crediamo utile provare a ragionare sulla attuale fase politica e sulle sue prospettive futuro assumendo come premessa alcune delle sue considerazioni. Considerazioni che in parte condividiamo. Ma che ci conducono a conclusioni differenti dalle sue. Del resto, anche rischiando il ludibrio degli amici, amiamo – soli in tutto il Paese – qualificarci come veltroniani di destra e siamo quindi attenti alle sue evoluzioni e alle sue considerazioni.

Certo, non ci soffermeremo sulle premesse della sua missiva rivolta. L’incipit stesso, ”Scrivo agli Italiani, a quelli che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare", contiene una dose di retorica francamente insopportabile. Ma ormai ce ne siamo fatti una ragione: la sua prosa è inestricabilmente appesantita da una massiccia e invincibile retorica buonista ed è illusorio sperare che il suo stile possa un giorno diventare più autentico e più essenziale (cosa che le gioverebbe non poco). E del resto, si tratta di un peccato veniale: soprattutto in questa fase storica, una certa dose di retorica demagogica rappresenta un ingrediente essenziale di ogni offerta politica (come l’obamiano "I care" insegna).

Né ci interessa addentrarci nel catalogo lungo e soprattutto banale di accuse e di insulti rivolti al Presidente del Consiglio, al Governo, alla maggioranza parlamentare. Accuse che in realtà altro non sono che la rituale declamazione del Chaiers de doleance che l’opposizione politicamente corretta recita vanamente da circa vent’anni: il conflitto di interessi, la natura di dittatorello sudamericano di Berlusconi, la deriva populista, gli interessi egoistici, le dinamiche affariste, i rischi secessionisti …

Accuse che nell’equilibrio della sua lettera sembrano piuttosto essere il prezzo da pagare per poter essere assolto dall’accusa di intelligenza con il nemico cui lei evidentemente si espone. Perché, è questo il nodo della nostra riflessione, la sua lettera rappresenta essenzialmente un atto di accusa nei confronti dell’attuale linea politica dell’opposizione (delle opposizioni).

Il cuore del suo ragionamento è, infatti, il rifiuto di quell’atteggiamento culturale che sinora ha condizionato la strategia del PD portandolo a rifiutare qualunque proposta di collaborazione diretta a stabilizzare il nostro sistema politico dopo la lunga ed incompiuta transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un atteggiamento totalmente difensivo, di grande sapienza tattica ma di assoluta miopia strategica, che si è concentrato su un unico obiettivo: impedire a Berlusconi di portare a compimento il proprio progetto politico, progetto sul quale egli è riuscito, in modo del tutto inaspettato (ricordate l’atteggiamento sprezzante con il quale Mario Segni rifiutò di allearsi con lui nel 1993?) a conquistare il consenso della metà degli italiani. Ciò ha condotto ad una linea politica di mera interdizione, di assoluta disinvoltura nella politica delle alleanza (l’altroieri la Lega costola della sinistra, ieri Di Pietro garante della giustizia, oggi Fini alfiere della democrazia e della laicità), di completa indifferenza per i contenuti programmatici, con l’unico obiettivo di impedire al governo di governare nella speranza di poter lucrare qualche rendita di posizione di breve periodo.

Questo endemico vizio della classe dirigente della sinistra italiana rappresenta l’unico lascito ancora vivo della tradizione togliattiana. Tradizione che certo noi non amiamo ma che dalla sua aveva almeno una tragica grandezza storica. L’obiettivo della democrazia progressiva, della conquista – casamatta dopo casamatta – dell’egemonia sulla società civile, del tatticismo esasperato nelle alleanze e della disinvoltura nelle posizioni politiche (do you rimember la svolta di Salerno e l’articolo 7 della Costituzione?) era niente di meno che la costruzione del socialismo in Italia senza mettere a repentaglio gli accordi di Yalta e gli equilibri internazionali post-bellici. Oggi di tutto ciò non resta più niente ed il togliattismo residuo è al servizio del giustizialismo manettaro di Travaglio e al gossip boccaccesco della D’Addario.

Ben venga quindi la rivoluzione veltroniana del Partito Democratico a vocazione maggioritaria. Ben venga il rifiuto di una cultura progressista in grado di declinare solo un verbo: difendere. Ben venga l’afflato “decisionista” che invita a non considerare più il tempo delle decisioni politiche come una variante secondaria. Ben venga il suo radicato convincimento in favore di un vero bipolarismo fondato su schieramenti coerenti accomunati da valori e progetti comuni. Ben venga il suo rifiuto del partitismo senza partiti e della politica che sottrae ai cittadini il potere di decidere il governo.

Ma il suo errore consiste nel ritenere che la prospettiva di fare dell’Italia “un Paese normale” passi dall’abbattimento del berlusconismo. Lei non capisce (o finge di non capire) che se l’Italia, dopo il crollo della Prima Repubblica, si è rimessa in moto, se il sistema politico si è orientato verso un modello di tipo maggioritario e bipolare, è stato proprio grazie all’anomalia Berlusconi.

Certo si è trattato di un’anomalia e del resto solo l’ingresso sula scena di una variante anomala ed imprevista avrebbe potuto scuotere il sistema, modificando in profondità i suoi paradigmi, i suoi meccanismi di funzionamento e financo il suo linguaggio. Storici e politologi si incaricheranno fra qualche decennio di tentarne una lettura ed una spiegazione. Quel che a noi interessa oggi è evitare che il Paese possa fare un enorme passo indietro, riportando in vita un sistema politico chiuso al suo interno, immobile ed autoreferenziale. E non si tratterebbe solo di riportare le lancette dell’orologio al 1992, con una assurda perdita di tempo. Sarebbe molto peggio.

Oggi i protagonisti di quella stagione storica, i partiti di integrazione di massa novecenteschi, sono scomparsi. Resuscitarne il sistema politico esporrebbe il Paese ad una permanente lotta fra gruppi di potere, bande e clan più o meno criminali. In questa prospettiva sarebbe veramente a rischio la stessa tenuta dell’unità del Paese. Certo il berlusconismo prima o poi si esaurirà. Le leggi della politica prima ancora che quelle della natura ne determineranno il tramonto. Il punto è se questo processo di esaurimento debba essere spontaneo e fisiologico ovvero debba essere artificiale, determinato da congiure di palazzo, da giochi di potere o da teoremi giudiziari.

E da questo punto di vista, la prospettiva di governi tecnici, di responsabilità o di unità nazionale altro non sarebbe se non il tentativo di espellere forzosamente Berlusconi dal sistema politico. E, al di là di ogni considerazione sul fatto se un simile tentativo avrebbe poi effettivamente successo, sarebbero in ogni caso gravi le conseguenze sugli equilibri generali del sistema.

Nella sua lettera Lei sembra, anche se in modo un po’ contorto, manifestare consapevolezza di tutto ciò. Anche se subito dopo aver espresso il suo rifiuto per una “santa alleanza contro Berlusconi”, Lei manifesta la sua disponibilità per una soluzione transitoria capace di affrontare per un breve periodo l’emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale per dare forma ad un moderno e maturo bipolarismo.

Ma, onorevole Veltroni, Lei crede davvero che una santa alleanza nata per uccidere il bipolarismo possa poi approvare una legge elettorale che lo consolidi? Crede davvero che una compagnia di giro con UDC, Italia dei valori e semmai Lega possa approvare un sistema elettorale maggioritario fondato sui collegi uninominali sul modello inglese che avrebbe l’inevitabile effetto di portare il Paese verso un assetto bipartitico riducendo enormemente gli spazi per tali forze intermedie?

La verità è che Lei, nell’esporre la sua posizione, sembra impaurito dal trarre le conclusioni dalle sue stesse coraggiose premesse. E, dobbiamo ammetterlo proprio per la stima che nutriamo nei suoi confronti, in questo Lei ci ricorda il grande barone Antonio De Curtis quando sublimemente affermava: “io il coraggio ce l’ho. E la paura che mi fotte!”