Casini e D’Alema volevano tornare alla politica di 15 anni fa ma hanno fallito
28 Gennaio 2010
Lo avevano definito “laboratorio politico”. E la cosa ci aveva immediatamente insospettito. Quando in politica qualcuno lancia un laboratorio, normalmente la fregatura è dietro l’angolo. Normalmente i laboratori politici altro non sono che tentativi di dissimulare spregiudicate operazioni di potere ammantandole da fini ragionamenti di tattica e di strategia politica. I laboratori sono cosa serissima ed è perciò consigliabile lasciarli ai chimici, ai fisici ed a quanti si occupano di cose serie. La politica, quando è seria, non ambisce ad uno statuto di esattezza e scientificità e non richiede ambienti sterili per provare in assenza di contaminazione le conseguenze di un esperimento. A parte poi il fatto che qualificare le prossime elezioni pugliesi come laboratorio equivale ad attribuire agli elettori pugliesi lo statuto di cavia.
Ma gli elettori pugliesi hanno evidentemente compreso il pericolo e si sono clamorosamente ribellati al destino di cavia loro assegnato dalle fini strategie di D’Alema e Casini, novelli dr. Frankestein della politica italiana. E così il laboratorio pugliese pensato per far fare un passo indietro di quindici anni alla politica italiana si è trasformato esattamente nel suo opposto. La conferma che il nostro Paese è cambiato e che con forza pretende dalla politica un analogo cambiamento. Dietro il confronto – scontro fra Vendola e la strana coppia D’Alema – Casini non c’era tanto la questione primarie si – primarie no ma c’era una diversa concezione della politica e della democrazia.
Il nodo più evidente era relativo all’assetto bipolare che il nostro sistema politico ha (sebbene con immane fatica e grosse difficoltà) assunto dal 1994. E’ nota l’allergia casiniana al bipolarismo. Per lui, allievo del formidabile Arnaldo Forlani, educato alla immobile centralità democristiana che innovava nella (propria) continuità, è addirittura inimmaginabile l’idea che nel sistema si formino due poli politici alternativi che, in leale concorrenza, si contendono la legittimità a governare, alternandosi sulla base degli andamenti elettorali. Prima ancora che una questione di strategia politica si tratta di un problema psicologico. La rivoluzione silenziosa del berlusconismo ha evidentemente sconvolto le sue categorie cognitive e fatica ad adattarsi al nuovo ambiente. E, pur compiendo generosi sforzi, periodicamente si riaffaccia in lui la pulsione irrefrenabile di un ritorno all’età dell’oro (democristiano).
Meno comprensibile è invece la strategia dalemiana (con la complicità di Bersani). In teoria il PD è stato molto beneficiato dalla rivoluzione bipolare della politica italiana. Se ha potuto aspirare a diventare un partito a vocazione maggioritaria, uscendo dalle secche del minoritarismo cronico del PCI, se è riuscito finanche ad andare al governo per ben sette anni su quattordici, è stato proprio grazie all’evoluzione del sistema che, scompaginando le vecchie identità politiche della Prima Repubblica, ha favorito la formazione di due grandi partiti alternativi ed entrambi pienamente legittimati a governare. In teoria dovrebbe essere chiaro che se il disegno di Casini di scompaginare l’attuale assetto politico favorendo la nascita di un grosso partito di centro che di volta in volta decide i propri alleati dovesse avere successo, ebbene, in questo caso, il prezzo politico più alto lo pagherebbe proprio il Partito Democratico e, in particolare, la sua componente ex-comunista.
Ma probabilmente anche per capire la posizione dalemiana occorre fare ricorso a categorie psicologiche più che politiche. Il fatto è che pur avendo sin dalla sua nascita assunto posizioni di alta responsabilità nel partito, D’Alema non ha mai accettato sino in fondo la nascita del Partito Democratico. Del resto, quando all’indomani del fallimento del comunismo e del crollo del Muro, Achille Occhetto propose il cambio della ragione sociale del Partito Comunista Italiano in Partito Democratico della Sinistra chi fu il suo più autorevole oppositore? Certo, se D’Alema avesse vinto quella battaglia, forse oggi la sua esperienza politica sarebbe confinata ad un ruolo di mera testimonianza di un passato politico grande quanto tragico. Ma è chiaro che anche quando veniamo beneficiati dai fatti della vita che hanno smentito le nostre previsioni e sconfitto le nostre strategie rimaniamo comunque affezionati alle nostre idee più profonde.
Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato nella spettacolare vittoria di Vendola. Sul campo si confrontavano anche due concezioni generali della democrazia. Da un lato la democrazia dei partiti, nella quale la dialettica politica si sviluppa all’interno di partiti fortemente strutturati, insediati sul territorio, articolati in molteplici livelli di responsabilità in permanente dialettica fra di loro. E dall’altro la democrazia degli elettori, nella quale il ruolo dei partiti non è quello di invadere tutti gli ambiti della società civile nel tentativo di controllarne le dinamiche e veicolarne le spinte all’interno delle istituzioni, ma, più semplicemente, quello di definire un’offerta politica che incontri il favore del corpo elettorale e di selezionare una adeguata classe dirigente in grado tradurre in concreta azione di governo la propria offerta politica. Non è questa la sede per discettare quale fra le due concezioni sia preferibile. Probabilmente nessuna delle due è migliore in astratto. La scelta per l’una o l’altra dipende moltissimo dal contesto storico e sociale nel quale si colloca. Ma, almeno ai nostri occhi, è certo che oggi nel nostro Paese è inimmaginabile pensare di costruire una democrazia dei partiti somigliante a quella che abbiamo conosciuto nei primi quarant’anni di storia repubblicana. Sia chiaro: quella democrazia non va demonizzata in quanto tale. Certo gravi sono state le sue degenerazioni nella fase finale, ma occorre riconoscere che la democrazia dei partiti della Prima Repubblica ha anche avuto dei grandi meriti: ha consentito il consolidarsi di un sistema democratico, ha favorito l’integrazione nel sistema di masse popolari, ha permesso la sviluppo economico e sociale del Paese.
Il fatto è che pensare oggi di ripetere oggi quell’esperienza sarebbe profondamente sbagliato. Oggi è profondamente mutato il contesto culturale e sociale del Paese, oggi l’integrazione sociale si svolge in canali del tutto estranei al circuito politico, oggi la comunicazione è diventata assai più rapida, libera ed efficiente, oggi le identità politiche novecentesche sono assai più sfumate (alcune – come quella comunista o quella fascista – perché definitivamente sconfitte dalla storia, altre – come – quella liberale o quella riformista – perché definitivamente accolte nel senso comune della collettività). Ma se questo è vero, è chiaro allora che pensare di tornare alla democrazia dei partiti equivarrebbe solo a consegnare le sorti del paese ad un ceto politico chiuso ed autoreferenziale che non ha alcun legame vero con le dinamiche sociali in atto e quindi non potrebbe certo ambire a rappresentare veramente il popolo. Il che per un democratico (qualunque democratico) dovrebbe essere un grosso problema. E la cosa più singolare è che una lezione di autentica cultura liberaldemocratica ci sia venuta proprio da uno, come Niki Vendola, orgogliosamente e, se volgiamo, generosamente legato ad una tradizione politica, come quella comunista, esattamente agli antipodi della nostra.