Cattolici e radicali. L’eredità politica e culturale dell’altro ’68

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Cattolici e radicali. L’eredità politica e culturale dell’altro ’68

09 Settembre 2007

La lunga stagione italiana del ’68 non è veramente paragonabile ai movimenti americani ed europei di quegli anni, a causa della sua straordinaria durata, ampiezza e persistenza. Dentro il nostro ’68, che si chiude alle soglie degli anni Ottanta, ci sono tendenze di pensiero, elaborazioni ideologiche, parentele e ascendenze che altrove sono state del tutto assenti, o presenti in forma molto limitata; ci sono soprattutto sedimentazioni, lasciti, eredità che costituiscono, credo, uno specifico nazionale. La prima specificità è costituita dall’esistenza del Partito Comunista Italiano, dalla sua straordinaria elasticità e vischiosità, che gli ha permesso di restare il principale e inevitabile referente di tutti i movimenti più o meno alternativi, marxisti, rivoluzionari, che nascevano alla sua sinistra. Ma vorrei accennare almeno a due filoni un po’ trascurati del ’68, e tipicamente italiani: quello radicale e quello cattolico.

La contestazione studentesca, secondo alcuni (tra cui il giornalista Roberto Beretta, autore del “Lungo autunno, controstoria del ’68 cattolico”, edito nel ’98 da Rizzoli), inizia proprio nell’ateneo considerato il fiore all’occhiello della formazione culturale dei cattolici, l’Università cattolica milanese. C’era stata qualche avvisaglia già in altre città, ma è l’occupazione della Cattolica nel ’67 che finisce con prepotenza sui giornali, sconvolge il mondo accademico, politico ed ecclesiastico, e mette in circolazione le parole d’ordine e le pratiche politiche che poi avranno una lunga e vasta fortuna. E’ alla Cattolica, durante quella precoce invasione studentesca, che vengono feriti, in uno scontro diretto tra studenti e personale, alcuni bidelli (a uno viene rotto il braccio con un estintore). Le prime prove di guerriglia urbana si fanno in Italia, nel marzo ’68 (in anticipo rispetto al famoso maggio francese) con lo storico scontro davanti alla facoltà di architettura di Valle Giulia, ma proseguono pochi mesi dopo a Milano, con la terza occupazione dell’Università cattolica, durante la cosiddetta “battaglia di Largo Gemelli”, in cui vengono feriti 60 studenti e 36 poliziotti. Anche il più noto leader del movimento studentesco, Mario Capanna, inizia la sua carriera alla Cattolica, dove era iscritto, e durante i primi comizi davanti all’università, sotto la pioggia, è un sacerdote dello stesso ateneo che gli presta il proprio inconfondibile impermeabile nero; tanto inconfondibile che il rettore resta lì accanto per avvisare gli studenti che Capanna, nonostante l’indumento, non è un prete.

Sull’importanza delle radici cattoliche della rivolta studentesca non mi sembra esistano molti studi; da semplice lettrice con qualche curiosità ho trovato poco, molto poco. E’ noto il percorso biografico di alcuni leader, da Mario Capanna ad Alex Langer a Marco Boato, fino a Renato Curcio e soprattutto Mara Cagol; tutti, almeno inizialmente, credenti. Ma la fortissima caratterizzazione marxista dei diversi gruppi, con le sue numerose varianti, ha messo in ombra la forza esplosiva del ’68 cattolico, che dalle università dilagò all’interno della Chiesa, suscitando subbuglio persino nei seminari. Alcuni collegi furono chiusi per manifesta ingovernabilità della situazione: i seminaristi non tolleravano le regole, inneggiavano a Mao e Lenin o proclamavano autogestioni e scioperi. Ma anche tralasciando i casi estremi, la figura del sacerdote era considerata in profonda e irreversibile crisi. Beretta cita ad esempio alcuni degli innumerevoli titoli usciti all’epoca, che dipingevano un quadro a tinte fosche sul futuro del sacerdozio,  da “C’è un domani per il prete?” a ”Una Chiesa senza clero”. La diffusione delle comunità di base, i preti operai, le messe celebrate in piazza, le occupazioni di cattedrali, lo scandalo e il dissenso prodotto dall’Humanae Vitae (uscita in pieno ’68), sono stati oscurati  dai tentativi di consolidamento politico dei gruppi extraparlamentari, dal loro rapporto di attrazione e ripulsa con il Pci, e poi dalla nascita dell’autonomia, dal terrorismo, dagli esiti violenti della grande ondata sessantottina.

L’altra componente del ‘68 poco considerata è quella radicale. Qui parlo anche per esperienza personale e diretta. Si dice spesso che il ’68 ha avuto, soprattutto agli esordi, un’anima antiautoritaria, fantasiosa, libertaria; per intenderci, quella degli slogan come “vietato vietare”, o “la fantasia al potere”. Ma se quest’anima ha dato frutti politici, in Italia, lo si deve ai radicali. Il mix tutto particolare di liberalismo, nonviolenza, culture alternative creato da Marco Pannella, con il collante di una militanza quasi ossessiva, è stato un fatto politico unico, senza uguali in Europa. Pannella seguiva una strategia politica e comunicativa insieme rigorosa e innovativa, capace di inserirsi nelle pieghe di quello che allora veniva chiamato sistema (ma che i radicali definivano invece regime) con sorprendente efficacia. Il Partito radicale aveva solidissime radici liberali, ma le traduceva in obiettivi politici capaci di esprimere le domande e la cultura del movimento, e in metodi di intervento assai lontani dalla politica tradizionale dei partiti.

Il politologo Angelo Panebianco ha scritto, molti anni fa, che il Pr ha funzionato da testa senza corpo di quel corpo senza testa che era il movimento. Trovo la definizione molto calzante. Come nella famosa scena cinematografica in cui Charlie Chaplin raccoglie la bandiera caduta a uno scioperante, e si trova inconsapevolmente alla guida di una grande manifestazione, Pannella ha condotto e vinto le battaglie che vengono abitualmente ascritte al movimento (anche al movimento delle donne). Lo ha fatto anche per conto degli altri, ma questi altri ci hanno messo molto tempo a capirlo. Nel ’68 i diritti civili venivano ancora definiti, sia dalla sinistra tradizionale che da quella extraparlamentare, “diritti borghesi”, e c’era una sottovalutazione e un disprezzo culturale palpabili nei confronti di obiettivi come divorzio e aborto, obiezione di coscienza, libertà di orientamento sessuale; eppure non solo queste battaglie corrispondevano ai sentimenti, al vissuto e ai desideri dei ragazzi di allora, alla voglia di libertà personale, di sperimentazione privata, al nuovo individualismo che cominciava a diffondersi, ma soprattutto sono state vittorie politiche che oggi vengono attribuite al ’68 e alla sua capacità di rivoluzionare il costume e gli stili di vita.

Ho fatto questi pochi accenni perché mi sembrano utili per capire che cosa del ’68 oggi è rimasto, e con quali eredità dobbiamo fare i conti.

I radicali, così minoritari negli anni ‘70, sempre un po’ ai margini, sempre un po’ rifiutati dalla sinistra, sembrano aver stravinto. La sinistra postcomunista ha assunto i vecchi diritti civili come nuova bandiera, dopo aver tragicamente smarrito per strada le proprie. I temi sociali si sono appannati e confusi: gli operai, se non sono proprio una specie in via di estinzione, certo non godono più della centralità salvifica attribuita loro dal marxismo; la componente decisiva dei sindacati sono diventati i pensionati; il terzomondismo, anche nella sua veste no-global, è messo in crisi dal fondamentalismo islamico e dall’ingresso nel gioco internazionale di nuove potenze; tutelare gli immigrati comporta il rischio di lasciare al centrodestra la difesa della sicurezza. Restano dunque, come obiettivi qualificanti, quelli classici del Pr, il laicismo e i diritti individuali, dall’eutanasia alla selezione genetica del figlio, dall’ampliamento dei limiti dell’aborto al matrimonio omosessuale.

Per analoghi motivi, il cambiamento di scenario ha prodotto effetti altrettanto devastanti sul versante cattolico. Il cattocomunismo è in grave crisi. Il terreno delle tematiche sociali, su cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro storico tra le due grandi culture popolari, la comunista e la cattolica, si è progressivamente inaridito, riducendosi a una steppa disabitata in cui vagano gruppi di superstiti confusi. Il dibattito sulle possibili soluzioni per colmare le diseguaglianze, e sulla solidarietà, non scalda più il cuore del popolo di sinistra, che si è stufato dei lavavetri, e pare anche dei posteggiatori abusivi. I temi eticamente sensibili, che invece provocano drammatiche lacerazioni tra i cattolici di sinistra, tendono a prevalere su quelli economici e sociali, che sembrano consegnati a un destino di progressiva irrilevanza identitaria. Non perché l’economia solleciti minore attenzione da parte dell’elettorato, ma perché non è più possibile avere, nei confronti delle scelte di politica economica, approcci praticabili che rimandino a posizioni immediatamente riconoscibili. Nella notte della globalizzazione tutti i ministri del Tesoro tendono ad essere grigi, e persino l’antica e solida vocazione statalista del centrosinistra fatica a trovare sbocchi ideologici coerenti e condivisi, e rischia di far identificare l’Ulivo semplicemente come il partito delle tasse.

Questa doppia eredità sessantottina, la radicale e la cattolica, porta con sé il carico di una profonda mancanza di consapevolezza. L’assunzione, da parte della sinistra, dei diritti civili come asse ideologico caratterizzante non deriva da un impianto culturale coerente e ben integrato con la cultura politica diffusa tra il popolo di sinistra. All’origine c’è una non comprensione, spesso anche un rifiuto della cultura liberale; per esempio della libertà individuale come salvaguardia dall’invadenza dello stato, del diritto di proprietà come garanzia di libertà, dell’attenzione verso il bilanciamento dei poteri, del rispetto per le regole formali del gioco democratico, del garantismo, del mercato. Il radicalismo di massa prodotto dal ’68 ha più a che fare con la volontà di “abbattere il sistema”, come si diceva allora, con l’insofferenza verso il principio di autorità, l’ordine costituito, la tradizione dei padri. La liberazione dei desideri avrebbe dovuto far scoppiare dall’interno forme sociali ritenute intrinsecamente repressive e funzionali al mantenimento e alla trasmissione della proprietà privata, come la famiglia, e persino la coppia, ritenuta troppo chiusa nel proprio egoismo. I “marxisti immaginari” di allora si sono trasformati gradualmente in concreti consumatori, ma l’hanno fatto legittimati in fondo dalle teorie di Agnes Heller; per l’allieva di Lukacs, il capitalismo maturo produce nel suo stesso seno dei “bisogni radicali” che non è possibile soddisfare, e che diventano terreno di uno scontro rivoluzionario tra soggettività e potere.

E’ da lì che si arriva al “diritto al lusso” e magari all’esproprio proletario. La cultura politica dei diritti individuali, così come l’ha introiettata la sinistra, non ha dunque nulla di liberale: tant’è vero che a sinistra spesso chi è contro il mercato quando si tratta di innocui oggetti, chi è contro la scelta quando si tratta di consumi (come l’odiata Coca Cola), è assolutamente pro choice sul terreno della manipolazione dell’umano e a favore del mercato quando si tratta del corpo, come accade per la compravendita internazionale degli ovociti o gli uteri in affitto.

Anche il ’68 cattolico ha lasciato un’eredità di inconsapevolezza e di ritardo nella comprensione degli scenari attuali. Oggi l’irruzione della biopolitica nella quotidianità, la pressione disgregativa a cui viene sottoposta la famiglia, i dilemmi sulla vita e la morte posti dalla tecnoscienza, hanno creato una inedita e vincente alleanza tra laici e cattolici, che in Italia ha dato origine all’astensione di massa al referendum del giugno 2005. L’intransigente difesa della vita umana è stata a lungo un tratto distintivo dei cattolici, quasi un’esclusiva, e negli anni Settanta sembrava una posizione indifendibile, una cittadella assediata dalla rivoluzione antropologica postmoderna, e destinata prima o poi a cadere. Invece, l’area di consenso intorno al nucleo duro della tutela della vita e della sua dignità si è allargata, superando anche la divisione tra laici e cattolici. Ma una parte dei cattolici, e anche una parte del clero, tenacemente legato a vecchi modelli interpretativi, sembra non accorgersene. Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa dal cardinale Martini al parlamentare diessino Ignazio Marino sull’Espresso, per esempio, si legge in filigrana l’idea di una chiesa sempre in ritardo e in affanno rispetto al progresso e alla scienza, una chiesa a cui si chiede con impazienza uno sforzo di aggiornamento e di apertura. C’è dietro l’idea dello “scisma sommerso”, di una drammatica divaricazione tra i comportamenti concreti dei fedeli e gli imperativi morali troppo rigidi proposti dalla dottrina della Chiesa. E c’è l’idea di una storia che cammina verso una direzione di miglioramento, e di un radioso futuro a cui l’evoluzione scientifica dà un contributo essenziale. Alla Chiesa si chiede di essere al passo con la modernità, di capire il mondo, che diventa una sorta di totem da adorare, ed è proprio il mondo che sfugge invece alla comprensione dei cattolici di questo tipo: lo inseguono, ma non lo capiscono più. Il risultato è un effetto di spiazzamento, di sorpresa impreparata di fronte a fatti come la vittoria dell’astensione al referendum sulla legge 40, o di fronte al Family day.

Esiste invece un nuovo “scisma laico”: emergono, nel pensiero laico, correnti che rifiutano la deriva laicista e il nuovo attacco al cristianesimo. L’ambigua eredità del ’68 cattolico (ci rendiamo conto di usare una formula molto generica) affiora con evidenza in questa incomprensione nei confronti della realtà italiana e del peso che nella nostra quotidianità sta acquistando la biopolitica.