C’è anche un lato buono nell’essere dei “bamboccioni”
26 Giugno 2011
di Luca Negri
Ma i trenta/quarantenni di oggi hanno veramente molto da vergognarsi quando vengono inseriti nella famigerata categoria sociologia della “generazione Peter Pan”? In parte, ovviamente sì. Però se il venire etichettati con il nome del bambino che non voleva crescere ma sapeva volare fosse veramente motivato, ci sarebbe anche da inorgoglirsi. I nati negli anni Settanta ed Ottanta possono rinfrescarsi la memoria grazie ad un bel libro edito dalla senese Cantagalli, Alla ricerca di Peter Pan. Gli autori sono Paolo Gulisano, medico con la passione per la letteratura fantasy e britannica (ha già scritto su Tolkien, Lewis, Wilde e Chesterton) e Chiara Nejrotti, pedagogista cultrice del mondo dei simboli e dell’immaginario medioevale. Il loro lavoro si muove agilmente fra gli ambiti della psicologia e del mito, giacché Peter Pan è tutt’altro che un personaggio superficiale, raccontandoci la vita e l’opera principale di James Matthew Barrie, l’uomo che partorì l’eroe fatato. L’identificazione fra creatore e creatura, in questo caso, è molto stretta, ben oltre il “Bovary c’est moi” dichiarato da Flaubert.
Barrie nacque nel 1860 in una famiglia di ferventi calvinisti scozzesi, dalla sua terra ereditò il gusto celtico per il racconto fiabesco e per le leggende, oltre ad una certa malinconia romantica. Malinconia che divenne angoscia per un’improvvisa tragedia famigliare: la morte del fratello David appena quattordicenne e la conseguente depressione della madre. Il piccolo Barrie, tentò di incarnare la memoria del ragazzo defunto per alleviare i dolori della genitrice; non riuscendovi, si trasformò in folletto animato dal desiderio di dare un poco di allegria e felicità nel tetro lutto domestico. Forse queste scelte pregiudicarono la sua crescita, lo condannarono ad una particolare immaturità, anche nello sviluppo fisico e, qualcuno dice, sessuale (il suo unico matrimonio naufragò presto, dava il suo meglio negli amori romantici ed ideali piuttosto che negli impegni seri). Alla compagnia dei coetanei preferiva quella complice dei bambini (del tutto pura e priva di riflessi morbosi più evidenti in Charles Dodgson, alias Lewis Carroll).
Lo spirito da folletto e la bravura nell’immaginare, raccontare e scrivere lo avevano già reso famoso, le sue commedie brillanti richiamavano il grande pubblico di Londra, quando, prossimo ai quarant’anni, diede vita a Peter Pan. Il personaggio fu abbozzato in un romanzo e sbocciò nella commedia teatrale rappresentata nel 1904, trasformata qualche anno dopo nel classico della letteratura mondiale conosciuto anche da chi non lo ha mai letto. Se arrise un così notevole successo, addirittura secolare, fu anche perché Barrie riuscì a toccare qualcosa nel profondo di tutti i bambini, non limitandosi a quelli tali per l’anagrafe. Il suo non fu, insomma “un gioco intellettuale, ma un atto di fede”, ci avvertono Gulisano e Nejrotti. Fede nel potere dell’immaginazione, nel mito, nell’esistenza di un “oltre” non limitato dalla ragione umana e nella possibilità di accedervi. Solo tornando bimbi, come ammonisce il Vangelo, si può infatti entrare nel Regno dello Spirito.
Peter Pan è dunque un “mito paradigmatico”, un archetipo da risvegliare dentro di noi, senza fargli prendere il sopravvento nella nostra psiche, dato che non manca un suo lato oscuro. È il suo stesso nome a avvertirci: Pan è infatti il dio greco nume della natura selvaggia, abitatore dei boschi, mezzo uomo e mezzo capro, sempre occupato suonare, danzare e a dar la caccia alle ninfe. Un fauno che incarna energie potenti che possono essere tanto creatrici quanto distruttrici. Questa natura faunesca, selvaggia ed irresponsabile, Barrie la rese già nella descrizione fisica del suo personaggio: “vestito di fogli secche e degli umori che stillano dagli alberi”, con ancora tutti i denti da latte. Evidente è anche il richiamo con Hermes/Mercurio (nella mitologia è infatti il padre di Pan), dio fanciullo, guida nel regno dei morti, messaggero degli dei olimpici ma patrono di ladri, commercianti e poeti. Abbiamo a che fare con l’archetipo del Puer, puro principio del piacere opposto e complementare a quello di realtà, imprigionato nel suo gioco senza tempo, impetuosa potenza creatrice incapace però di concretizzare.
Peter Pan spesso visita il nostro mondo ma la sua vera dimora è la terra incantata chiamata Neverland; in italiano questa “terra del mai” fu tradotta con “l’isola che non c’è”. In effetti era un’isola, altro archetipo significativo, immagine del paradiso perduto, Atlantide scomparsa, Avalon celtica così lontana dall’Inghilterra vittoriana brutalizzata dall’industrializzazione accelerata. Nell’Isola che non c’è, Peter Pan porta un gruppo di bambini, tra i quali c’è Wendy, forse la vera protagonista positiva della vicenda. Dopo quell’avventura nel regno della fantasia, la ragazzina deciderà di non rimanere accanto al piccolo fauno ma di accettare la realtà, il ritorno a casa, le responsabilità della crescita, l’esperienza dell’invecchiamento. Proprio perché arricchita da quel viaggio meraviglioso può svilupparsi con l’equilibrio e la saggezza negati a chi non crede nelle fiabe.
Le fate invece non abbandonano mai Peter Pan; il “piccolo popolo” del folklore anglosassone (anime dei morti, piccole divinità della natura, potenze invisibili tenute in vita dall’immaginazione dei bimbi) sono le sue compagne predilette. Ma su Neverland ci sono anche sirene, pellerossa (Barrie li scoprì leggendo il capolavoro di James Fenimore Cooper, “L’ultimo dei Mohicani”) e cattivi, ovvero i pirati. “Pendagli da forca” che nella vicenda rappresentano il male, anche se in forma leggera e ironica (l’interesse per i bucanieri nacque per influenza dell’amico Robert Louis Stevenson, autore de “L’isola del tesoro”). Capo dei pirati è Capitan Uncino, rappresentazione dell’adulto incapace di comprendere la bellezza e la spontaneità dell’infanzia, verso le quali prova una violenta invidia. Infatti “tutti gli adulti sono pirati” in eterna lotta con i Lost boys, i “Ragazzi Sperduti” che formano il piccolo esercito di Peter Pan.
Barrie morì nel 1937, proprio mentre il mondo stava per piombare in una guerra tragicamente più seria di quella combattuta tra i Lost boys e i pirati, ma il mito da lui creato gli sopravvive ancora. Al suo successo contribuì enormemente il film d’animazione realizzato da Walt Disney nel 1953 ma il cinema si è occupato di lui anche in anni più recenti con “Hook” di Spielberg (memorabili le interpretazioni di Robin Williams, Julia Roberts e Dustin Hoffman nei panni del Capitan Uncino) e “Neverland” del 2004, dove Barrie è impersonato da Johnny Depp. Anche la musica popolare omaggiò il bimbo che non voleva crescere; a casa nostra se ne sono occupati Enrico Ruggeri e soprattutto Edoardo Bennato che con il suo album “Sono solo canzonette” (1980) riuscì a fotografare perfettamente le follie degli anni di piombo e la libertà di spirito necessaria per fuggirne lontano.
Nei primi anni Ottanta si cominciò a parlare di “sindrome di Peter Pan” per definire la situazione di paralisi fra la condizione di fanciullo e quella di uomo maturo sempre più diffusa nel mondo occidentale. Siamo dunque tornati alla vergogna di essere “bamboccioni”, a quel limbo dovuto alla scolarità di massa che ha allungato l’adolescenza, alla crisi economica che non permette di pianificare un futuro solido come quello delle generazioni immediatamente precedenti, ad una scuola non abbastanza autorevole, incapace di ancorarsi alla tradizione che possa arginare gli effetti deleteri di una concezione eccessivamente razionalistica dell’esistente ed un culto troppo entusiasta della spontaneità ereditato dal ’68. Ma allora i bamboccioni che devono fare, oltre a vergognarsi un po’? Forse imparare qualcosa da Peter Pan, trovare il coraggio di far voli fuori dalla finestra, cercare di realizzarsi attraverso l’immaginazione creatrice e non confidare troppo nell’aiuto degli adulti che sono tutti, sotto sotto dei pirati. Meglio affidarsi alle fate, dato che “nessuno può volare alto se la polvere delle fate non è stata soffiata in lui”.