C’era anche Silvio Pellico fra i cattolici che hanno fatto l’Italia

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

C’era anche Silvio Pellico fra i cattolici che hanno fatto l’Italia

10 Aprile 2011

È un fatto ormai riconosciuto da quasi tutta la storiografia risorgimentale che il processo di unificazione italiana assunse un carattere anticattolico. Non solo a causa degli indubbi ostacoli posti dall’esistenza del retaggio medioevale rappresentato dallo Stato della Chiesa nel bel mezzo della penisola e dal potere temporale esercitato dal successore di Pietro. I Padri della Patria Mazzini, Cavour, Garibaldi coltivavano infatti una certa avversione ideologica nei confronti dell’intera civiltà cattolica. Stesso discorso vale ancor di più per carbonari, massoni, liberali, repubblicani e socialisti. Secondo loro era tempo che la campana del Vaticano suonasse a morto per se stessa. Il suo ruolo ormai superfluo, il suo posto pronto ad esser ceduto al cristianesimo protestante e calvinista o alle nuove religioni dell’Umanità, della Nazione, del Popolo.

Così non la pensava però per Silvio Pellico, figura meno conosciuta, più di altre ridotta alla favoletta scolastica. Quando va bene, rammentata solo per il libro che testimonia la sua reclusione: “Le mie prigioni”. Per riscoprire Pellico un’ottima occasione è offerta da un recente volume pubblicato da Lindau: I cattolici che hanno fatto l’Italia, curato da Lucetta Scaraffia. La docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, saggista e giornalista (per L’Osservatore Romano, Il Foglio e il Sole 24 ore) ha raccolto una serie di saggi illuminanti e ha scritto quello conclusivo significativamente intitolato “Il contributo dei cattolici all’unificazione”. Perché non vi fu solo un Risorgimento fatto di battaglie sanguinose, tatticismi diplomatici, proclami dai balconi. Vi furono altri contributi, forse meno roboanti e dall’effetto meno immediato. Fu così che la Chiesa, sconfitta sul piano politico, riuscì ad avere un ruolo ancora più radicale ed incisivo nella vita sociale. Ad esempio colmando i vuoti del Regno di Sardegna prima e poi del Regno d’Italia nel sostenere i bisognosi. Quello che si presentò come male, ovvero la forzata cancellazione degli ordini contemplativi e la soppressione dei beni ecclesiastici ebbe modo di trasfigurarsi in bene con la comparsa di nuove confraternite. Votate sempre più alla vita attiva, al lavoro, soprattutto a contatto con gli strati più bassi della società: orfani, prostitute, malati, carcerati, poveri.

Queste “imprese assistenziali” furono il contributo cattolico al processo di unificazione e modernizzazione del Paese. Giacché l’Italia se possedeva una qual forma di unità prima del 1861 la doveva proprio alla religione, sembra proprio un giusto contrappasso, una sonora pernacchia a tutti gli anticlericali di stampo ottocentesco. A ragione la Scaraffia sostiene che il Piemonte ebbe un ruolo guida non solo sul piano militare e politico, ma anche su quello religioso, ergendosi a modello per le altre chiese locali. In virtù dei santi sociali che operarono soprattutto a Torino, la città che stava annettendo a sé il resto d’Italia. E a fianco dei subalpini San Giovanni Bosco, San Giuseppe Cottolengo, don Giuseppe Cafasso e il beato Faa’ di Bruno, per citare solo i più noti, ci furono anche Silvio Pellico e la sua amica marchesa Giulia di Barolo. Due saggi del libro sono dedicati a Pellico, firmati da Oddone Camerana (che sviscera il suo rapporto fra l’esperienza carceraria e l’opera) e Simona Trombetta (a proposito della cooperazione con la Barolo). 

Pellico aveva vissuto nella Francia napoleonica e nella Milano romantica, frequentato Monti e il Foscolo, Madame de Stael, Federico Gonfalonieri e Giovanni Berchet. La sua tragedia “Francesca da Rimini” era stata un vero successo, aveva diretto la rivista megafono del romanticismo, “Il Conciliatore”. E si era anche affiliato ad una setta segreta che tramava forse regicidi o insurrezioni. Scoperto dalla polizia austriaca nel 1820, Pellico venne condannato a morte, pena poi commutata in quindici anni di carcere. Li scontò a Milano, ai Piombi di Venezia e soprattutto nella famigerata fortezza di Spielberg in Moravia.

La sua vita fu “tagliata in due”, scrive Camerana, dal giorno dell’arresto; la prigione fu “la palestra della sua conversione e ritorno al cristianesimo”. Fra quelle mura imparò la compassione per le sofferenze altrui, la necessità di lenirle, per quanto possibile, invece di causarne altre. Ecco perché quando “Le mie prigioni” fu pubblicato, era il 1832, deluse molti patrioti. Aspettavano un squillo di tromba per la battaglia e si trovarono fra le mani un libro assolutamente cristiano. Più lungimirante fu Metternich che riconobbe nel libro un danno per l’Impero austro-ungarico maggiore di una battaglia persa. Pellico scrisse ancora qualche tragedia, poesia e saggio. Ma sempre meno. Da buon romantico trasformò l’arte in vita, diventando prima bibliotecario di Giulia di Barolo, poi suo segretario fino alla morte che lo colse nel 1854. Insieme si industriarono per riformare il sistema carcerario sabaudo e di conseguenza italiano. Primo successo quello di separare le donne dagli uomini e tutelare così la loro integrità, poi impegnarsi per una reale rieducazione attraverso la dottrina e pratica religiosa. Addirittura vi furono tentavi di organizzazione democratica della vita carceraria, di riflessioni all’avanguardia sui diritti minimi dei reclusi.

Pellico condivise con la marchesa anche i giudizi negativi e le polemiche culturali nei confronti dei patrioti anticattolici. Questi ultimi reagirono soprattutto per mezzo della stampa illuminista, ovvero con una buona dose di gossip: con molta fantasia, fecero girare voci che suggerivano una loro relazione e qualche bacio peccaminoso fra un’ispezione al carcere e un Te Deum. Quel che è certo e che fecero molto bene e che nel 1851 si fecero entrambi terziari francescani.

 

Poco meno di un secolo dopo Pio XII proclamò San Francesco d’Assisi patrono d’Italia. Un’Italia fatta non solo da Cavour, Mazzini e Garibaldi.