C’eravamo tanto illusi

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C’eravamo tanto illusi

C’eravamo tanto illusi

20 Luglio 2007

Quando nell’ormai lontano 1989 cadde
il Muro di Berlino, molti credettero che i valori della “società aperta” ormai,
anche nel ventre molle dell’Occidente, rappresentato dai paesi dell’Europa
mediterranea, sarebbero divenuti “senso comune” e che il conflitto politico,
quintessenza della democrazia liberale, avrebbe visto come protagonisti gli
eredi della vecchia e nobile tradizione socialdemocratica, da un lato, e i
liberali rimessi a nuovo, dall’altro. In Italia, a loro avviso,  la lunga marcia del PCI verso le rive
atlantiche ne sarebbe stata favorita e la nostra anomalia nazionale, il “fattore
K”, avrebbe potuto essere superata.

E, in effetti, negli scritti teorici e nelle
dichiarazioni pubbliche della vecchia sinistra sembrava emergere la
rassicurante consapevolezza che l’unica democrazia “a misura d’uomo” fosse quella
liberale, impensabile senza il capitalismo e il mercato e, soprattutto, senza
le grandi divisioni che ne avevano assicurato il trionfo in passato – tra
diritto e politica, tra Stato e Chiesa, tra “destra” e “sinistra”. Sulla carta
tutto filava liscio, i nemici di una volta  diventavano “avversari’ e una secolare guerra
civile pareva conclusa per sempre.

Che cosa non ha funzionato? Il partito degli
illusi, di cui lo scrivente fece parte, dimenticava una delle lezioni
fondamentali del liberalismo classico ovvero che la political culture di un partito non è fatta solo di “idee” e di “posizioni
di principio” ma, altresì, di costumi, di stili della mente e di abiti del
cuore che traducono idee e principi in comportamenti naturali, in riflessi
condizionati e talora in allergie inguaribili. Per fare qualche esempio, non si
può essere “liberali” (sia pure di “sinistra”) se si tiene ferma una “filosofia
della storia” fondata sulla “grande promessa” della fine delle ineguaglianze
sociali, dell’economia di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo,
dell’abbattimento di tutte le specie di potere: in quest’ottica, infatti, ogni coalizione di governo di
centro-destra risulterebbe legale (ovviamente) ma non legittima in quanto segno
evidente di un “passo indietro”. Quando, dopo anni di governi sempre più%0D
asfittici di centro-sinistra, si costituì il bicolore Andreotti/Malagodi, ci fu
un momento che i giovani socialisti furono quasi tentati di scendere in piazza.”Ci
hanno detto de rinuncià alla rivoluzione – protestò un loro dirigente romano – e
vabbé ce rinunciamo, ma ora manco più le riforme!”. E’ la logica del “se non si
va avanti, si fanno le barricate”.

Ma neppure si può essere liberali se
l’ombra di Banquo dell’antifascismo azionista crea uno stato di mobilitazione
permanente per cui si è costretti sempre ad allestire le unions sacrées, cioè alleanze con uomini e partiti di altri pianeti
ideologici, per sconfiggere il nemico pubblico N. 1 che, di volta in volta,
assume le sembianze del fascismo, del clericalismo democristiano, dei pescecani
confindustriali, del populismo berlusconiano etc. Questa sindrome non ha
consentito ai benemeriti progettisti del 
democratic party italiano di pensare
alla grande, di guardare non alla  vittoria
elettorale nell’immediato ma a quelle di un futuro non remoto, alla luce dei
puntuali autogol del centro-destra al governo. Un programma lineare, di solido
ancoraggio occidentale, di netta chiusura alle sinistre radicali (antagoniste e
non) avrebbe fatto di quest’area politico-culturale il riferimento obbligato di
tutti quei settori sociali desiderosi di un paese normale e non di “far
piangere i ricchi” e invece si è scelta la via della crociata, dell’”Annibale alle
porte”, del moralismo azionista che vede in ogni demagogo (vero o falso che
sia) una reincarnazione del duce e chiama a raccolta ‘i liberi e forti‘ per
difendere la democrazia in pericolo. Solo così si spiega la mancata
indignazione per la terza carica dello Stato assegnata a un guevarista, come
Fausto Bertinotti, che ha portato in Parlamento tre  simboli “estremi” dell’eversione
antioccidentale : contro lo Stato di classe (la madre di Carlo Giuliani),
contro il ‘modello di sviluppo liberalcapitalistico’(Francesco Caruso), contro
la morale cristiano-borghese (Vladimir Luxuria). Qualche riformista doc, anzi,
ha ripetuto la solita solfa:”Senza ‘Rifondazione Comunista’ sarebbe stato
impossibile vincere Berlusconi!” E allora? In politica, il machiavellismo di
Machiavelli serve a fondare gli stati ma il machiavellismo del sottogoverno
porta solo alla delegittimazione dei partiti. Uno schieramento riformista
sbarrato alla sinistra estremista, in ogni caso, avrebbe dato una prova
incontestabile di coerenza e di serietà, pericolosa, innanzitutto, per il
centro-destra che avrebbe rischiato di  perdere migliaia–se non qualche milione di
elettori (Come riteneva, inascoltato, specie dopo la scomunica datagli da
Giorgio Bocca, il buon Giampaolo Pansa).

Ma c’è ancora un altro aspetto paradossalmente
poco liberale dell’attuale riformismo ed è il suo sottile, persistente,
disprezzo della democrazia reale, dell’uomo della strada, del qualunquista
eterodiretto. Negli elettori dell’avversario-nemico si ravvisano tout court  le masse cieche temute dai liberali
dell’Ottocento – da Tocqueville a Mill – che avevano coniato l’espressione “tirannia
della maggioranza” e le icone della sinistra democratica non si stancano di
ricordarci i pericoli della “deriva plebiscitaria”, degli interessi egoistici
dei ceti sociali e delle regioni ricche che fanno strame del bene  pubblico. Questa idea perversa che le
maggioranze siano legittime quando mandano al governo le persone perbene mentre
diventino “pericolose” quando sanciscono la vittoria della ‘conservazione’,
persino in campo riformista, ha indotto taluni a riconsiderare il ruolo, i
poteri e la competenza della magistratura. Quest’ultima non dovrebbe essere più
soltanto la custode della Costituzione ma il mastino incaricato di far sì che
la legislazione ordinaria, non ci faccia “tornare indietro”: che, ad esempio,
lo Statuto dei lavoratori venga quasi assimilato a una norma costituzionale
mentre la legge Biagi venga tranquillamente fatta a pezzi. I giudici, in un
certo senso, come i senatori a vita: un’assicurazione solida contro eventuali
incidenti elettorali!

Finché la sinistra “liberale” non si libera
delle tre metastasi che attualmente le tolgono ogni credibilità – la filosofia
della storia, l’antifascismo eterno, l’elitismo – difficilmente diverrà  una  forza di governo. Le vicende di questi giorni
ne sono una conferma inoppugnabile: le difficoltà del governo Prodi, infatti,
non vengono dalle sue componenti riformiste ma dalla società civile stanca
dell’indecisione permanente e dei ricatti continui di sindacati, no global,
antagonisti; vengono dalla Confindustria e dalla Banca d’Italia; vengono da
Bruxelles che non ama le furberie italiche e l’assistenzialismo strisciante e
camuffato. L’esigua pattuglia riformista degli Enrico Morando e degli Antonio
Polito, politici che in un autentico Labour
Party
italiano avrebbero avuto ben altra incidenza e visibilità, conta come
il due di coppe quando la briscola è spada.