Cerchiamo di capire cos’è successo in Kirghizistan
15 Aprile 2010
Dopo la rivolta della scorsa settimana che ha portato alla deposizione del Presidente Bakiyev, il Kirghizistan si trova in un limbo politico, con un governo provvisorio e il rischio di una guerra civile. Russia e Stati Uniti, entrambi detentori di basi militari nel Paese, osservano attentamente l’evolversi della situazione. Il caos che negli ultimi giorni ha sconvolto il Paese sembra scemare, sebbene la situazione possa dirsi tutt’altro che stabile.
Bakiyev annuncia di essere pronto a negoziare la sua dipartita, accettando di sottoporsi ad un processo per stabilire le cause delle decine di vittime (almeno ottanta) della rivolta, in cambio di garanzie sulla sua sicurezza. La risposta del capo del governo provvisorio Roza Otunbayeva è eloquente: “Versando sangue, Bakiyev ha varcato i limiti della sua immunità e ora deve affrontare un processo e rispondere davanti alla legge”.
La Storia si ripete a distanza di appena 5 anni in questo Paese a maggioranza musulmana incastonato nel cuore dell’Asia centrale. Nel 2005, la rivolta dei Tulipani promossa contro il Presidente Akaiev, salito al potere nel 1990 prima della dissoluzione dell’URSS, concesse le chiavi del Paese al capo dell’opposizione Kurmanbek Bakiyev. Ora è Bakiyev ad essere deposto per mano di una pletora di politici capeggiati dalla navigata Roza Otunbayeva, la quale nel 2005 sfilava assieme a Bakiyev per le strade di Bishkek.
Dall’estate scorsa, a seguito della contestata rielezione di Bakiyev, uscito vittorioso con l’89 percento dei voti, l’opposizione era in fermento. Le credenziali democratiche di Bakiyev possono dirsi quantomeno fumose, ma non è questo il motivo che ha spinto il popolo alla ribellione. La stagnante situazione economica interna nonché la decisione governativa di raddoppiare il prezzi delle bollette dei servizi pubblici a partire dal gennaio 2010 hanno contribuito in maniera sostanziale all’esasperazione della popolazione – peraltro giovane .
Vi sono state diverse sommosse popolari di minore entità dall’inizio dell’anno; tuttavia la situazione è uscita fuori controllo solo il 6 aprile scorso, quando l’arresto di una figura dell’opposizione nella cittadina di Talas, nel nordovest del Paese, ha provocato una reazione di massa, repressa dalle forze dell’ordine. Il giorno successivo, le manifestazioni anti-Bakiyev si moltiplicano in tutto il Paese.
Bishkek diventa il centro delle proteste. Bakyev dichiara lo stato di emergenza, ma la situazione sfugge di mano. Il Capo dello Stato si ritira nella sua roccaforte, a Jalalabad, nel sud del Paese, protetto dai suoi sostenitori, mentre nella capitale Roza Otunbayeva forma un governo ad interim che dovrà rimanere in carica sei mesi, tempo utile all’organizzazione delle prossime elezioni. Il rischio di una guerra civile non è per nulla scontato; Otunbayeva ha affermato che la situazione rimane “tesa e difficile”.
Nella vicenda kirghisa si inseriscono calcoli geopolitici che coinvolgono, per ragioni diverse, Russia e Stati Uniti. Il governo provvisorio ha incassato subito l’appoggio sia di Mosca che di Washington. Il Primo Ministro russo Putin ha espresso chiaramente la posizione del suo Paese, affermando che il Presidente Bakayev ha commesso gli stessi errori del suo predecessore. La Russia sta assumendo un atteggiamento proattivo – ad esempio concedendo prestiti del valore di 50 milioni di dollari – con l’intento di aumentare la propria influenza nell’ ex repubblica sovietica.
La visita a Bishkek di Robert Blake, assistente Segretario di Stato, testimonia tutta la preoccupazione statunitense per gli eventi kirghisi: la base aerea che gli USA detengono dal 2001 è di importanza vitale per le operazioni in Afghanistan e Washington intende assicurarsi che il nuovo governo non giochi spiacevoli scherzi, a vantaggio dei russi. Se la Casa Bianca vuole vincere a Kabul non può permettersi di perdere l’alleato kirghiso.