Charles Péguy ci ha spiegato come riaccogliere Dio nel mondo
04 Aprile 2010
Non sappiamo più chi siamo. O forse lo sappiamo benissimo, ma ce ne siamo dimenticati. Nei momenti in cui scandalo, violenza, pornografia, schiavismo intellettuale e consumistico sembrano sul punto di dare la scalata finale al senso della vita e all’amore del destino, che dovrebbero governare una comunità, è facile perdere la bussola. In una fase politica in cui predominano le contese e le diatribe di carattere etico, spesso strumentali e che inquinano il dibattito e la possibilità di ragionare in modo approfondito, è possibile non cogliere più il significato delle cose. In un periodo storico in cui decine di cristiani vengono massacrati ogni giorno in diverse parti del mondo, coprendo con il nome di Dio barbare uccisioni e assurde guerre etniche e sociali, è sicuro di rimanere attoniti.
Allora non è più possibile tacere. Non con la forza delle armi, ma con l’intensità della fede che comunica Cristo. Perché è proprio quando sembra approssimarsi lo zenit della catastrofe che l’uomo deve ritrovare se stesso: per i superficiali una frase banale, per chi sa ascoltare una chiave di volta. Perché ritrovare l’uomo significa ritrovare le proprie origini, quell’impasto d’amore e materia su cui ha soffiato l’alito della creazione, significa riscoprire il sacro e far rivivere l’Eterno nel temporale. Insomma, riaccogliere Dio nel mondo.
Fu allora profeta del suo tempo e del nostro il grande scrittore e intellettuale Charles Péguy, che a cavallo del Novecento tuonava contro il lassismo spirituale che aveva permesso al virus del modernismo di mettere radici e infettare senza rimedio il terreno colto di un mondo in via di estinzione. “Vergogna ai vergognosi e sventura ai tiepidi”, diceva. A coloro che infilano la testa sotto la sabbia per conformarsi al conformismo, che preferiscono la calda coperta dell’omologazione per evitare di essere rinnegati “prima che il gallo canti” e le sirene di un perbenismo machiavellico li abbiano additati come reietti. A coloro che rifiutano l’annuncio di salvezza per la paura dello scherno, il timore del banale, il ridicolo del giusto. Perché – se cristianità vuol dire testimonianza, vissuta nella grazia delle origini in Gesù fattosi Cristo – chi non ha coraggio di dirsi cristiano rischia di non esserlo veramente.
Non aveva mezze misure Péguy, nato nel 1873 e morto nel primo giorno della battaglia della Marna nel 1914. Inizialmente ammaliato dal socialismo rivoluzionario di Proudhon, fondò i “Cahiers de la Quinzaine”, si convertì al cattolicesimo e ne divenne un fervente testimone illuminando con sprazzi di geniale intuito e logicità il panorama del mondo moderno che si andava disegnando. Tanto da essere oggi affiancato ad altri grandi, come Walter Benjamin o Thomas S. Eliot, e stimato al pari di pensatori e teologi di prim’ordine come Hans Urs von Balthasar, Romano Guardini o Henri de Lubac. E non le ha tutt’oggi, che ci colpisce con l’attualità sconcertante delle riflessioni e delle parole di Lui è qui, una ricca antologia di suoi scritti, piccoli saggi e poemi, edita da Bur nella collana della “Biblioteca dello spirito cristiano” e curata da Davide Rondoni e Flora Crescini.
Una summa del suo pensiero, una cavalcata alla scoperta di se stesso e di se stessi, un lungo viaggio nella grazia della conversione e della nascita del proprio rapporto con Dio: dalle intemerate contro lo scientismo in Zangwill alla gioia dell’annuncio divino ne Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, dalla critica all’ “immensa prostituzione del mondo moderno” nella Nota congiunta su Cartesio all’epica mistica e carnale di Eva, chiesa universale, madre dell’uomo e di Cristo. Quel “Lui è qui/Lui è qui come il primo giorno/Lui è qui in mezzo a noi come il giorno della sua morte/Eternamente Lui è qui fra noi come il primo giorno/Eternamente ogni giorno/E’ qui fra noi per tutti i giorni della sua eternità”, che segna allora la presenza costante e irrinunciabile dell’Assoluto nel mondo. L’avvenimento tangibile attraverso cui la “meccanica” dell’Eterno si fa carne, vive e muore per noi. Nonostante tutto e proprio per quel tutto. Affinché il seme morendo dia frutto e spalanchi i cuori a una nuova era di conversione.
E allora non è più possibile tacere. Riaccendendo la luce, riscoprendo l’ineluttabile inscindibilità del carnale e del trascendente, abbandonandosi al corpo mistico incarnatosi nel mondo. Aprendo le braccia agli altri, in quell’infinito gesto d’amore della Croce, che da scandalo si fa accoglienza e relazione con gli altri, con l’Altro. Senza il quale non si dà il cristianesimo, non una filosofia per metafisici né un credo per spiritualisti. Ma una “religio”, legame e relazione che riallaccia il singolo al tutto e il tutto al singolo. Nella modernità che corre e ingoia, sembra avanzare ma spesso obnubila e inganna, occorre uno stop, come suggerisce Péguy. Per rialzare la testa e lanciare la ripartenza verso un nuovo inizio. Verso la Verità della Croce di chi si è immolato per la salvezza dell’uomo. La nostra identità passa da lì.