Charlie Gard o la fine dell’umanesimo occidentale

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Charlie Gard o la fine dell’umanesimo occidentale

Charlie Gard o la fine dell’umanesimo occidentale

29 Giugno 2017

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che sancisce definitivamente l’autorizzazione ai sanitari dell’ospedale pediatrico di Great Ormond Street Hospital di Londra a lasciar morire il piccolo Charlie Gard – neonato inglese sofferente di una rarissima malattia genetica – anche contro il parere dei suoi genitori non è soltanto l’epilogo drammatico di un caso “privato”: rappresenta invece il punto di arrivo, e il momento simbolicamente riassuntivo, di un lungo processo storico che ha condotto alla fine della concezione della vita umana e del diritto che è stata per secoli alla base della civiltà occidentale.   

L’idea dell’esistenza di diritti naturali fondamentali inalienabili, comuni a tutti gli esseri umani, si è sviluppata innanzitutto a partire dall’ammissione che esiste un primo diritto assoluto, quello alla vita, senza il quale tutti gli altri sono impossibili: un diritto fondato sulla concezione ebraica, cristiana, greca e romana dell’individuo come pietra fondante della società, entità organica e moralmente indipendente, che attraverso il patto, la legge, la ragione datagli dal Creatore si qualifica come essere unico, insostituibile, e dotato di una dignità assoluta, al pari di tutti gli altri.

E’ su questa base che prende forma nel Medioevo europeo il costituzionalismo, come complesso di norme e istituti giuridici che limitano il potere del sovrano sui sudditi, innanzitutto a partire dal principio dell’habeas corpus, l’intangibilità dell’integrità fisica naturale degli individui rispetto a costrizioni e violenze operate da chi detiene il potere. E’ questo il pilastro sul quale sono stati costruiti, dal tardo Seicento al Novecento (ma con radici profonde che si estendono all’antichità e al Medioevo) gli edifici del governo costituzionale, del liberalismo, della democrazia. 

John Locke nel secondo “Trattato sul governo” (1690) quando parlava dei diritti propri dell’uomo nello stato di natura nominava per primo proprio quello alla vita, da cui faceva discendere logicamente libertà, uguaglianza civile e proprietà. E sosteneva che secondo la legge di natura nessun essere umano “dovrebbe recar danno alla vita, alla salute, alla libertà e ai possessi di un altro, poiché gli uomini essendo tutti fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio; essendo tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati sulla terra per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui che li ha creati, e destinati a durare finché piaccia a lui, e non ad altri”. L’unica eccezione prevista all’integrità fisica degli esseri umani prevista nell’ottica del fondatore del costituzionalismo liberale era l’esecuzione di una sentenza capitale o un’azione di ordine pubblico contro individui violenti che minacciassero l’integrità altrui. 

Il preambolo alla Dichiarazione di indipendenza americana (1776), poi, alla base delle democrazie liberali contemporanee, citava la vita, insieme  alla libertà e alla “ricerca della felicità”, come esempio dei principali diritti inviolabili di cui tutti gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore. Ma con la Rivoluzione francese si affacciava nella civiltà europea l’ideologia: l’idea, cioè, che possa essere il potere politico, seguendo un criterio “scientifico”, a rendere perfetta la società. Dal punto di vista delle ideologie, non sono i governi a dover servire gli individui e le società, ma individui e società a dover assecondare le teorie applicate dai governi.

Non a caso, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 non si parlava più di diritto alla vita, ma di libertà, proprietà, “sicurezza” e “resistenza all’oppressione”, e il rispetto di questi diritti basilari  veniva comunque subordinato dai costituenti francesi alla Legge, espressione della Volontà generale della nazione. E non a caso in tutte le costituzioni successive ispirate più o meno direttamente a quelle rivoluzionarie francesi il diritto alla vita scompare davanti al potere sempre più esteso attribuito a vecchi e nuovi sovrani (il re, la nazione, il popolo) che possono a certe condizioni disporre della vita dei governati. L’esito di questo processo è l’imperialismo nazionalistico, la leva di massa, la riduzione delle masse popolari a “carne da cannone”, che trova la sua piena realizzazione nelle trincee della Grande Guerra. 

Con l’avvento dei totalitarismi la legalizzazione della violazione della vita umana compie il passo in avanti decisivo: la dittatura comunista dell’Unione Sovietica appena costituita è il primo Stato ad emanare una legge che legalizza l’aborto (1919), e quindi consente la soppressione della vita umana nella fase in cui essa è più indifesa, a scopo di subordinazione dei legami familiari agli obblighi imposti dal regime. La Germania nazista nel 1935 legalizza a sua volta l’aborto a scopo eugenetico, cioè per “purificare” e rendere più sana la razza, e nello stesso senso legalizza l’eutanasia per gli individui malati e affetti da handicap. Ma negli stessi anni anche democrazie come quelle di molti paesi scandinavi approvano provvedimenti simili, sulla base di un paternalismo autoritario insito nella loro storia, in base al quale ai governanti spetta di salvaguardare la “salute” della società, espellendone le parti “malate”. 

Dopo la seconda guerra mondiale il nuovo costituzionalismo democratico internazionale promosso soprattutto dai paesi occidentali riafferma il principio dell’inviolabilità del diritto alla vita (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, articolo 3, 1948; Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, articolo 2, 1950; Dichiarazione dei diritti del fanciullo, articolo 6, 1959), nonostante i paesi sottoposti al dominio comunista (e molti del cosiddetto “terzo mondo”) continuino ad ignorarla. 

Ma proprio nel cuore delle democrazie occidentali, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, cresce una nuova ideologia, il soggettivismo libertario, che fa coincidere i diritti individuali con la totale “autodeterminazione” del soggetto, e subordina la sacralità della vita alla “qualità della vita”, cioè al raggiungimento di standard di “benessere”. In tale visuale, sempre più si impone la pretesa, da parte di determinati soggetti pubblici e privati, di decidere quale vita sia degna o non degna di essere vissuta. L’ideologia dominante in Occidente – sulle ceneri dei grandi miti come il socialismo, il cmunismo, i fascismi, il nazionalismo – diviene sempre più l’ideale faustiano di un individuo in grado di vivere una vita interamente dedita ai piaceri e alle gratificazioni, e sempre più immune dal dolore.

Un ideale che tende a respingere e cancellare tutte le situazioni di sacrificio, rinuncia, sofferenza, dolore; e a considerare “irrecuperabili” tutti gli individui che non possono strutturalmente vivere nell'”empireo” edonista e consumista che viene considerato l’approdo supremo delle società liberaldemocratiche, e non possono “autodeterminarsi” fino a trasformare in realtà tutti i loro desideri.

E’ quella che papa Francesco ha chiamato la “cultura dello scarto”: per cui gli individui “difettosi” (per malattia, per età, perché non voluti o desiderati, perché non “produttivi”) non hanno diritto alla protezione e possono essere “cancellati”, o per altro verso usati come puro strumento per realizzare i desideri degli altri. Da qui deriva la riaffermazione, a dispetto dei fondamenti dell’etica e delle costituzioni occidentali, dell’aborto e dell’eutanasia come pratiche lecite e legali, della manipolazione e selezione degli embrioni, e di altre pratiche che distinguono vite di serie “A” e di serie “B”, giustificando questa discriminazione violenta con argomentazioni di tipo progressista, individualista o umanitario/comunitario. 

La “procedura” con la quale è stata decretata la liceità della sospensione di ogni trattamento terapeutico – e quindi la morte certa – del piccolo Charlie Gard, rappresenta la affermazione della prevalenza assoluta della “funzionalità”, dell’utilità, della strumentalità, sulla sacralità della vita umana. Altri casi negli anni scorsi hanno posto tragicamente il problema di questa tendenza sempre più esplicita: come quelli di Terry Schiavo o di Eluana Englaro. E la banalizzazione sempre crescente dell’idea secondo cui disporre della vita dei bambini non ancora nati rappresenta un aspetto essenziale della libertà umana, e che malati, anziani o depressi possono considerare come un’opzione realizzabile e propizia quella di chiedere di essere uccisi per eliminare i propri problemi, hanno potentemente spinto il sentimento comune delle opinioni pubbliche vero l’accettazione di essa.

Ma la tesi, affermata dai giudici dell’Alta Corte britannica, secondo cui  il “protocollo” prescritto per il piccolo Charlie costituisce di per sé una “tutela” dei suoi interessi, senza che né lui né i genitori possano esprimersi in proposito, chiude definitivamente il discorso del diritto soggettivo alla vita in nome della dignità e del valore di ogni persona, per lasciare il dominio assoluto ad un’ingegneria sociale intenta a rimodellare la società secondo un concetto astratto, aprioristico, di quali siano gli interessi e di quale sia il bene delle persone. Una concezione in cui le persone stesse non rappresentano ormai che numeri, cumuli di dati e statistiche, quantità di cui si può disporre secondo quella che viene considerata volta per volta la massima utilità sociale. 

E’, insomma, la realizzazione in forma apparentemente morbida, in punta di piedi, del totalitarismo orwelliano, in cui un “grande fratello” ha potere di vita o di morte sui suoi sudditi secondo imperscrutabili criteri. E’ la fine dell’umanesimo occidentale, l’approdo nella terribile realtà in cui i diritti sono soltanto una maschera tragica, il nome ingannevole di una universale autorizzazione alla violazione e manipolazione di corpi e menti umane.

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