Chavez punta sulla Colombia per colpire gli USA
04 Marzo 2008
“Signor ministro della Difesa: mi muova 10 battaglioni verso
la frontiera con la Colombia. Immediatamente! Battaglioni di carri armati! L’aviazione
militare, che si dispieghi. Noi non vogliamo la guerra, ma non permetteremo al
capo dell’Impero, al suo cagnolino, il presidente colombiano, e all’oligarchia
colombiana che ci dividano”. Così, nel suo più classico stile annunciandolo in
diretta tv nel corso del programma Aló
Presidente, Hugo Chávez ha avviato una escalation militare, mandando 8000
uomini alla frontiera. Causa scatenante del possibile conflitto: il blitz
all’israeliana, o alla russa in Cecenia tanto per fare riferimento a qualcuno
che invece Chávez considera un suo alleato, con cui la Forza Omega, unità di
punta interforze del dispositivo anti-guerriglia colombiano, ha eliminato
venerdì il portavoce delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia Luis Edgar
Devia, alias Raúl Reyes. Intercettato con il suo satellitare, e poi colpito
dall’alto assieme ad altri 18 guerriglieri mentre si trovava per
ecuadoriano. Reyes, ex-sindacalista con studi alle scuole di partito della
ex-Germania Orientale e alla macchia da oltre trent’anni, era il numero due del
movimento armato che mantiene tuttora prigioniera Íngrid Betancourt, e secondo
molti anche il numero uno. Di Pedro Antonio Marín alias Manuel Marulanda Vélez
alias Tirofijo, che invece sta alla macchia da sessant’anni, non si ha infatti
conferma di una sua esistenza in vita da vario tempo, dopo che erano circolate
voci insistenti su un suo cancro terminale.
Oltre a mandare le truppe al confine Chávez ha pure
richiamato l’ambasciatore a Bogotá, ma il governo colombiano non gli ha neanche
risposto. Tutti gli analisti concordano che in caso di conflitto le Forze
Armate colombiane, temprate da sessant’anni di guerra civile, farebbero un
boccone di quelle venezuelane: che Chávez ha deprofessionalizzato dirottandone
gli uomini a occuparsi di economia e infrastrutture, nel contempo in cui
puntava alla crescita di milizie paramilitari in vista di una “guerra popolare
asimmetrica” per la quale gran parte degli ingenti acquisti di armi fatti dal
regime bolivariano specialmente in Russia sono del tutto inutili. Oltretutto,
se si interrompessero gli acquisti di generi alimentari che il Venezuela fa in
Colombia andrebbe al collasso definitivo la già precaria situazione degli approvvigionamenti:
in crisi per le continue bordate populiste di Chávez contro produttori agricoli
e distributori. È vero che allo stesso Chávez il tanto peggio tanto meglio è funzionale,
nel momento in cui la sconfitta al referendum di riforma costituzionale dello
scorso dicembre gli impedisce comunque di ricandidarsi nel 2012.
Paradossalmente, però, le truppe al confine sono proprio quello che il governo
colombiano chiede da tempo, per evitare che i guerriglieri continuino a passare
da un lato all’altro. Luis Eladio Pérez, uno degli ultimi quattro prigionieri
liberati la scorsa settimana, ha ad esempio riferito che le Farc e i loro
ostaggi si muovono attraverso la frontiera in Brasile, Ecuador, Perù e
Venezuela, dove ricevono rifornimenti di ogni tipo. “Usavamo stivali di marca
ecuadoriana, deodoranti e medicinali brasiliani e dentifrici venezuelani”.
Il problema è invece con l’Ecuador. Anche il filo-chavista
presidente Rafael Correa ha per radio un programma simile a Aló Presidente, e il presidente
colombiano Álvaro Uribe Vélez sabato lo aveva sorpreso in diretta dandogli
l’annuncio dell’operazione. Preso alla sprovvista, Correa gli aveva fatto
addirittura gli auguri, pur aggiungendo che avrebbe ordinato indagini. In
seguito si è invece infuriato: l’impressione di molti è per aver ricevuto il
contrordine di Chávez; ma lui spiega che i soldati mandati sul posto hanno
trovato i cadaveri dei guerriglieri “ancora in pigiama”. Dunque, non ci sarebbe
stato il conflitto a fuoco a caldo dai due lati della frontiera come aveva
spiegato Uribe, e “il presidente colombiano ha mentito”. Certo, c’è stato anche
un morto tra i militari colombiani, che però partendo da una dimensione di
dubbio sistematico potrebbe essere stato vittima di “fuoco amico”. Però fa un
certo effetto sapere che i guerriglieri in territorio ecuadoriano si sentivano
così al
sicuro da mettersi addirittura in pigiama. E infatti i
militari colombiani dicono di aver recuperato addosso ai cadaveri e in tre
computer del materiale che per Correa sarebbe estremamente compromettente. Il
capo della Polizia di Colombia generale Oscar Naranjo parla infatti di un
documento in cui Reyes riferisce sull’interesse del ministro della Sicurezza
ecuadoriano Gustavo Larrea a “ufficializzare le relazioni con la direzione
delle Farc”. E di contatti diretti tra lo stesso Larrea e le Farc. E
soprattutto di un impegno di Correa a “levare” i comandi di polizia e Forze
Armate nelle zone ecuadoriane dove stanno le Farc. In cambio, il presidente
ecuadoriano chiedeva la liberazione di un ostaggio delle Farc prigioniero da
oltre 10 anni.
Al fianco di Venezuela e Ecuador si è pure mossa l’Argentina
dei coniugi Kirchner, ma in modo soft: ha semplicemente deplorato la
“violazione di sovranità”. Sta zitto invece il Brasile di Lula, che dice di
voler essere amico di tutti, che ostenta simpatia per Chávez, ma che ha fornito
alla Colombia gli aerei Supertucano che hanno rivoluzionato la lotta
antiguerriglia e con cui è stato compiuto anche quest’ultimo blitz: non solo
perché ci ha ricavato un bel po’ di milioni, ma anche perché le Farc trattano
cocaina e armi con quelle gang dai nomi sinistri che insanguinano Rio de
Janeiro e San Paolo con rivolte per strada ogni volta che il regime carcerario
dei loro boss viene irrigidito. In modo non ufficiale Lula ha però fatto sapere
di voler mediare tra Colombia e Ecuador e di aver interesse a “spegnere gli
incendi piuttosto che attizzarli”.
Paradossalmente, chi ha preso la cosa meglio di tutti sono
state proprio le Farc, che a loro volta sono abituate a trattare mentre
continuano a colpire, e anche a liberare in modo unilaterale due prigionieri
per poi sequestrarne altri cinque il giorno dopo. Pur usando verso Uribe un
linguaggio simile a Chávez a proposito dell’”Israele del Sudamerica” e delle
sue “uccisioni mirate”, hanno detto che continuerà la politica dello “scambio
umanitario” che ha portato recentemente alla liberazione di sei ostaggi.
Sopravvissute al crollo di quell’Unione Sovietica che era
stata il loro punto di riferimento, le Farc erano rimaste fuori da
quell’accordo di pace che nel 1989-90 aveva riportato altri gruppi armati
colombiani nella legalità, principalmente per sfiducia: già nel 1982 avevano
infatti concluso un altro accordo, per poi vedere i loro uomini tornati alla
vita politica normale sterminati da una serie di attentati. Nel contempo, però,
la loro struttura clandestina non aveva mai smobilitato: insomma, un patto
fallito perché ognuno dei contraenti aveva puntato a fregare l’altro. Rimanendo
alla macchia, tuttavia, le Farc avevano potuto profittare in pieno dello
sbandamento dei Cartelli di Medellín e Cali in seguito alla prima Guerra della
Droga lanciata da Washington, rilevando il business e godendo di un vero e
proprio boom economico: fino a trasformarsi nella prima impresa di Colombia,
con 2 milioni di dollari al giorno di utili.
Samper Pizano: finito nella lista nera Usa per finanziamenti del Cartello di
Cali alla sua campagna elettorale, con conseguente taglio di aiuti all’esercito
colombiano che permise alle Farc di far seguire all’escalation economica quella
militare, tentando addirittura l’assalto a Bogotá. E nel 1998 il nuovo presidente
Andrés Pastrana fu dunque eletto su una piattaforma di trattativa con la
guerriglia, che però fallì proprio perché sequestri e attacchi continuavano
anche durante i colloqui. Esasperata, l’opinione pubblica colombiana mandò
dunque al potere il falco Uribe, che ha promesso la soluzione militare.
Soluzione militare che a questo punto, grazie ai Supertucano di Lula e alla
crescente efficienza della Forza Omega, sembra ai governativi per la prima
volta possibile, dopo sessant’anni di guerra civile. Nel medio e lungo periodo,
dunque, proprio il fatto che il sogno di entrare a Bogotá con la forza
intravisto tra 1996 e 1998 è ormai svanito potrebbe aiutare il negoziato.
S’intende: se a sua volta il governo Uribe non si fa tentare dal massimalismo,
e alla prova di forza di cui aveva bisogno faccia seguire qualche proposta
politica. Nell’immediato c’è ora l’appuntamento con la grande manifestazione
indetta in Colombia per il 6 marzo contro i “paramilitari e il terrorismo
di Stato”: secondo molti alternativa; nelle intenzioni dichiarate dei
promotori complementare alla manifestazione che il 4 febbraio scorso ha portato
4,8 milioni di persone in piazza contro le Farc.