Chavez voleva esportare il bolivarismo ma il Sudamerica dice no grazie
24 Maggio 2011
Che questo sia un periodo tutt’altro che florido per i vari autarchi/dittatori/caudilli del Nord Africa e del Medio Oriente è un dato acclarato. Chiedere a Ben Ali, Mubarak, Assad e Gheddafi. Ma se allarghiamo lo sguardo al di là dell’Atlantico, scopriamo che neanche il numero uno dei leader maximi di nuova generazione, il bolivariano antiamericano per eccellenza, l’amico di Ahjamadinejad e dello stesso Gheddafi gode di uno stato eccellente di forma. Stiamo parlando ovviamente di Hugo Chavez, il presidente del Venezuela. Sembra infatti che uno dei motivi di maggior prestigio del presidentissimo, ovvero la sua influenza egemonica sui Paesi dell’America Latina, sia in netta crisi. E sono molti i fattori che lo testimoniano.
Partiamo dalla politica estera. La decisione di fornire un sostegno quasi empatico al raìs Muammar Gheddafi contro la rivolta del popolo libico ha spaccato il fronte sudamericano: se da una parte la posizione di Caracas è stata sottoscritta da Cuba e Nicaragua – paesi in cui vige un regime simile a quello venezuelano – dall’altra ha trovato ferma contrapposizione da parte dei governi di Colombia, Messico e El Salvador. Considerando che i motivi che spingono Chavez ad appoggiare l’ormai ex dittatore libico sono, oltre che economici, in primo luogo ideologici, e segnatamente anti-Usa, si comprende come il suo viscerale afflato contro l’imperalismo yankee non lo aiuti ad ergersi conducator indiscusso dell’America del Sud. La simpatia del vulcanico presidente venezuelano non si ferma, poi, al solo Gheddafi: negli ultimi tempi il governo di Caracas ha intensificato i rapporti con “pezzi da novanta” dell’autarchismo, quali il bielorusso Alexander Lukashenko e l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Pur volendo rimanere all’interno del recinto delle relazioni tra il Venezuela e gli altri Paesi dell’America Latina, appare comunque evidente quanto il fascino di Chavez stia perdendo il suo irresistibile magnetismo. Da sondaggi condotti sui cittadini dei vari Stati sudamericani, emerge chiaramente come l’immagine del populista presidente venezuelano venga offuscata dall’escalation di politiche e provvedimenti illiberali, mediante i quali Chavez colpisce i media nazionali e gli esponenti dell’opposizione. “I latino-americani hanno una scarsa valutazione della democrazia nel Venezuela”, rivela in un’intervista al Washington Post Marta Lagos, direttrice di Latinobarometro – organizzazione non profit che conduce sondaggi d’opinione in tutta la regione sudamericana. Secondo una ricerca condotta dal gruppo d’analisi, gli intervistati assegnavano al livello di democraticità del sistema politico venezuelano un voto di 4,5 su 10. Insufficienza piena, quindi. Inoltre, in Paesi quali Argentina e Bolivia – i cui rapporti con il regime di Chavez sono notoriamente positivi – meno del 35% degli intervistati ha affermato di apprezzare la figura del presidente venezuelano. “È evidente che Hugo Chavez non sia uno dei leader in Sud America” – ha aggiunto la Lagos.
Già i documenti pubblicati da WikiLeaks a fine 2010, in cui il Dipartimento Usa descriveva Chavez come un “pazzo pagliaccio”, rivelavano che alcuni leader sudamericani esprimevano tutto il loro disdegno per lo stile dell’autarca di Caracas, accusato di eccessiva invadenza negli affari del continente. In un’intervista rilasciata a inizio anno al quotidiano cileno El Mercurio, il presidente del Perù Alan Garcia ammise candidamente: “Io non rispetto chi vuole predicare oltre i suoi confini”. Il fatto poi che l’influenza di Chavez sia inversamente proporzionale al consenso di Obama nel Sud del continente americano fa capire che lo spauracchio degli Usa, agitato dal presidente venezuelano, si stia ripercuotendo contro lo stesso Chavez. Una vera e propria nemesi, insomma. La maggior parte dei leader sudamericani, infatti, è di orientamento moderato, non esclama “vade retro” di fronte alla parola “globalizzazione” e considera un valore aggiunto gli scambi commerciali con gli Stati Uniti. Una posizione nettamente agli antipodi rispetto a Chavez, il predicatore del bolivarismo e dell’odio verso la bandiera a stelle e strisce.
Da quest’anno, poi, Chavez non può più contare sull’appoggio esplicito del governo brasiliano. Da gennaio, infatti, l’amico e sostenitore del leader venezuelano, Lula, non è più il presidente del Brasile. Il suo successore, Dilma Roussef, si è da subito dimostrata più pragmatica e più attenta agli interessi nazionali rispetto all’idealismo transnazionale dell’ex sindacalista. Nel suo staff, non sarà certo passato inosservato il sondaggio effettuato dall’americano Pew Research Center nel 2010, da cui risultava che solo il 13% dei brasiliani nutriva fiducia nel dittatore di Caracas. “Non sta più volando in alto come faceva due anni fa – ha dichiarato sempre al Washington Post Luiz Felipe Lampreia, ex Ministro degli Esteri brasiliano –. “Credo che stia perdendo la sua capacità di influenzare le persone e di apparire come un leader forte, persino tra i suoi stessi alleati”.
Proprio in Brasile, nella cittadina costiera di Ipojuca, il progetto congiunto Venezuela-Brasile di una raffineria di petrolio sta andando incontro a pesanti ritardi nella realizzazione: il governo di Caracas fa fatica a coprire la propria parte di finanziamenti, a dispetto dei toni trionfalistici e, ovviamente, antiamericani con cui Chavez propaganda questo progetto. D’altronde, il petrolio è proprio una delle noti dolenti dell’economia venezuelana, contratta del 3,3% nel 2009 e del 1,6% nel 2010, proprio a causa del calo di produzione dell’oro nero e delle nazionalizzazioni di aziende e terreni agricoli, uno dei punti principali del programma socialista del governo del Paese sudamericano.
Critiche al 57enne presidente venezuelano giungono anche, come già sottolineato, per quanto riguardo i ciclici tentativi di restringimento dei diritti liberali, diretti contro l’opposizione e l’informazione. A fine aprile ha creato scalpore la consegna alla Colombia del giornalista Joaquin Becerra, del New News Agency, accusato di vicinanza con ambienti terroristici. La cattura del giornalista, che ha la doppia cittadinanza colombiana e svedese, ha scuscitato l’ira di Stoccolma, che ha accusato i due governi sudamericani di non aver informato dell’arresto le rispettive ambasciate svedesi. Sulle pagine del suo giornale, Becerra era solito denunciare le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Colombia: il gesto del Venezuela può quindi essere letto come un gesto di riconciliazione tra i due Paesi, dopo la crisi diplomatica del 2008, causata da un’operazione armata dell’esercito colombiano contro le Farc – le Forze armate rivoluzionarie colombiane: condotto all’interno dei confini dello Stato dell’Ecuador, il blitz mandò su tutte le furie non solo il governo di Quito, ma anche il Venezuela, in quanto in quel periodo il governo di Caracas stava trattando proprio con le Farc per la liberazione di Ingrid Betancourt – la politica colombiana sequestrata nel 2002 e rilasciata poi nel luglio 2008. Non solo, ma da dossier riservati resi pubblici da Wikileaks, si è da poco venuto a sapere che sia Ecuador che Venezuela risulterebbero essere tra i finanziatori dell’organizzazione paramilitare. Rivelazioni smentite duramente dai due Stati, ma che hanno gettato nuove ombre sui metodi governativi di Chavez, già contestati duramente per i ripetuti attacchi legislativi contro i media che fanno opposizione – su tutti la revoca della concessione a trasmettere alla storica rete televisiva RCTV – e per le minacce alle istituzioni democratiche, come quando nel 2006 minacciò di indire un referendum mediante cui estendere la sua rielezione a presidente fino al 2031.