
Che cosa ci ha insegnato davvero il caso Welby?

29 Luglio 2007
Il
Giudice per le indagini preliminari di
Roma, nella persona della dott.ssa Zaira Sechi, ha prosciolto dall’ accusa di
omicidio del consenziente il dott. Mario Riccio, che nello scorso dicembre
aveva proceduto a “staccare la spina” al ventilatore che teneva in vita
Piergiorgio Welby. La notizia, che non poteva che essere accolta con legittima
soddisfazione da parte dell’imputato, ha suscitato altresì commenti non sempre
coerenti e composti, anzi il più delle volte incongrui e sopra le righe. Stiamo
pur sempre parlando di un caso umano dolorosissimo, che è stato
intenzionalmente e a mio avviso indebitamente trasformato in un caso politico,
che però (ci si augura contro le intenzioni) ha provocato molta confusione
e non l’auspicata chiarezza di idee nell’opinione pubblica. Una cosa è certa: è
stato lo stesso Piergiorgio Welby a volere che si considerasse il suo caso come un caso politico, almeno
da quando inviò il 22 settembre 2006 al Presidente Napolitano una lettera aperta,
chiedendo che gli fosse concessa una “morte dolce”. Da allora per settimane e
settimane il caso Welby ha occupato gli spazi massmediatici, mescolando assieme
temi, istanze e sentimenti diversi, con il fine evidente di alterare l’orientamento
profondamente e istintivamente ostile all’eutanasia dominante nel nostro paese.
E’ presto per poter dire quale efficacia abbia avuto o potrà comunque avere in
un prossimo futuro questa campagna mediatica. Ma fin da ora si può e si deve
dire che essa è stata condotta strumentalizzando
un caso terribile e pietoso. Puntualizziamo i singoli aspetti del problema,
che comunque, come si vedrà, restano fortemente interconnessi.
La figura, la
personalità, le sofferenze, l’immagine stessa di Piergiorgio Welby sono state
usate per far giungere all’opinione pubblica un falso messaggio, obiettivamente
necrofilo, e cioè che la morte è l’unica
risposta possibile a malattie
degenerative terribilmente invalidanti come quella da cui egli era afflitto e
più in generale a tutte le malattie giunte alla fase terminale. Il messaggio autentico che andrebbe rivolto all’opinione pubblica è esattamente
l’opposto: la vera risposta a tutte le
situazioni tragiche di malattie invalidanti croniche e di malattie di fine vita
non sta nell’abbandono terapeutico (di
cui l’eutanasia è la forma estrema), ma nella vicinanza calda e compassionevole
del terapeuta al paziente; una vicinanza da intendere come un vero e proprio diritto e
che va fatta rientrare nel più generale diritto alla salute di cui siamo
tutti titolari.
Presentando
alla pubblica opinione il caso Welby si sono intenzionalmente e indebitamente
confuse le medicine palliative, vera e propria gloria della medicina più
recente, chiamate a dare e capaci di dare, ad ogni malato, la speranza concreta di poter convivere con la propria
malattia, anche se terminale, in modo dignitoso, con pratiche di sedazione (che qualcuno ha auspicato fossero robuste e irreversibili!),
finalizzate evidentemente a sopprimere il malato, più che a non farlo soffrire.
Si sono
denunciate, demonizzandole, le più recenti e straordinarie tecnologie
biomediche, come vere e proprie forme di manipolazione
violenta e innaturale della vita, minimizzandone indebitamente la straordinaria valenza terapeutica, che ha
loro consentito di salvare tante vite umane e dimenticando così di ricordare
che la manipolazione non va condannata perché innaturale (se così fosse sarebbe da condannare perfino la cottura
dei cibi), ma solo quando sia non coerente col bene umano.
Si è insistito
nel sottolineare come rivestisse carattere di accanimento l’uso di macchinari per la respirazione forzata ai
quali Welby doveva la propria sopravvivenza. Che di accanimento non si
trattasse, ma solo di una forma estrema e benefica di terapia, risulta non solo
da un parere autorevole formulato dal Consiglio Superiore di Sanità, su
richiesta del Ministro Livia Turco, ma dall’ elementare riflessione (condivisa
da tutti i bioeticisti) secondo la quale, perché accanimento si dia, è
indispensabile un’obiettiva sproporzione tra
il trattamento cui il malato è sottoposto e la finalità che il medico vuole
conseguire col trattamento in questione: nel caso di Welby il respiratore meccanico
aveva come finalità non quella di consentirgli una mera sopravvivenza biologica, ma quella di rendergli possibile una
sopravvivenza autenticamente e profondamente umana, che gli ha permesso oltre
tutto di esercitare l’ammirevole ruolo di un vero e proprio leader politico (come i suoi stessi
compagni di partito hanno instancabilmente ricordato).
Si è indotta
nella gente l’erronea convinzione che uno dei doveri fondamentali dei medici
sia quello di aiutare i loro pazienti a morire, evitando accuratamente
di ricordare come il giuramento ippocratico (prima ancora che una visione religiosa
della vita) impegna il medico a lottare sempre e soltanto per la vita e non a
operare per la morte.
Si è esaltato
il principio di autodeterminazione del
paziente, come se legittimasse qualunque pretesa del malato nei confronti del
medico, fino all’estrema pretesa eutanasica, quando questo principio,
fondamentale per la corretta attribuzione della piena responsabilità morale, acquista
in bioetica una valenza ben più ristretta, riducendosi in buona sostanza al
dovere di acquisire, per legittimare qualsiasi atto medico, il consenso
pienamente informato, da parte dei pazienti se competenti, o se incompetenti
dei loro rappresentanti legali.
Si è fatto
riferimento al caso Welby per stigmatizzare l’assenza nel nostro ordinamento di
una legge che riconosca validità ai c.d. testamenti biologici. E’ però evidente
che anche se in Italia fosse già vigente una normativa sul testamento biologico
(ma io preferirei che si usasse l’espressione Dichiarazioni anticipate di
trattamento, come ha fatto il Comitato Nazionale per la Bioetica), questa,
concernendo situazioni in cui il paziente ha perduto la capacità di intendere e
di volere, non avrebbe avuto alcun modo di essere applicata al caso di
Piergiorgio Welby, che ha mantenuto fino alla fine una piena e lucide capacità
intelletuale.
Come si spiega allora tale confusione? In molti casi con
l’incompetenza bioetica di chi l’ha fatta; in altri casi, però, dietro di essa
si può percepire un’intenzione inequivocabile, quella di aprire un nuovo fronte
per la legittimazione dell’eutanasia a carico di malati non competenti. Il
Comitato Nazionale di Bioetica, pur valutando favorevolmente l’ipotesi di
riconoscere valore legale alle Dichiarazioni anticipate, ha indicato con
estrema precisione i rigorosi limiti etici e giuridici di validità di tali
Dichiarazioni: attraverso di esse non si potranno mai pretendere dal medico
prestazioni illegali (come le pratiche eutanasiche) e meno che mai esse potranno
vincolarlo a qualunque desiderio l’autore del testamento biologico potesse aver
formulato e messo per iscritto. Un medico che fosse obbligato ad eseguire
passivamente la volontà indicata dal malato nelle Dichiarazioni anticipate
vedrebbe umiliata la sua autonomia scientifica e deontologica, un bene
preziosissimo, al quale è legata la dignità stessa della professione medica.
Si sono
denunciate inesistenti lacune nel
nostro ordinamento, che, se davvero esistessero, andrebbero al più presto
colmate, quando invece il nostro sistema penale, dal punto di vista della
questione che ci interessa, è assolutamente completo e chiaro. Se l’eutanasia
non ha alcun riconoscimento come fattispecie penale, non è per dimenticanza, ma
per chiara scelta del nostro legislatore (che infatti ha previsto che chi
uccida per pietà possa invocare l’ attenuante comune prevista dall’art. 621
del codice penale, quella cioè di aver agito “per motivi di particolare valore
morale”). Proibiti, altresì, con sanzioni più lievi di quelle previste per
l’omicidio volontario, sia l’omicidio
del consenziente che l’istigazione e l’aiuto al suicidio. Insistere nell’ipotizzare lacune normative
equivale ad auspicare che l’eutanasia venga depenalizzata o addirittura
legalizzata: è una pretesa forte, sulla quale si può ben aprire un legittimo dibattito
etico e politico, ma che va esplicitamente sottoposta alla pubblica opinione e
che non può essere fatta passare come una semplice richiesta di integrazione di un codice penale lacunoso.
Si è data una
interpretazione esasperata di un fondamentale principio costituzionale (art. 322),
quello per il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge”, come se si trattasse di
un’apertura del nostro dettato costituzionale all’eutanasia. Non è così. Non
c’è dubbio che, in base a questo principio, un malato possa rifiutare qualsiasi
trattamento, anche salvavita, o possa comunque chiederne la sospensione. Tale
richiesta non va però di per sé intesa come una richiesta di eutanasia e
l’accedere a tale richiesta non ha di per sé la valenza di un atto eutanasico:
è probabilmente per questa ragione (ma dobbiamo aspettare ancora, per leggere
le motivazioni della decisione del GUP) che il dott. Riccio è stato prosciolto
da ogni accusa.
Negli annali della bioetica si ricorda a questo proposito il caso
di Karen Quinlan (analogo solo sotto alcuni profili al caso Welby, dato che
Karen era in coma persistente): quando le venne sospesa la respirazione
artificiale (ritenuta una forma di accanimento) si scoprì che la povera ragazza
continuava a respirare naturalmente. Anche se in linea puramente ipotetica, lo
stesso sarebbe potuto accadere a Welby, cioè che dopo il distacco –da lui
fortemente voluto- del respiratore egli continuasse a respirare senza aiuti
meccanici e quindi a vivere. Bisogna quindi ricordare che il valore del
principio dell’art. 322 della Costituzione sta non nel favorire
l’abbandono terapeutico, ma nel porre un limite difficilmente superabile alla
tentazione, ricorrente anche se spesso in fondo inoffensiva, del paternalismo
terapeutico, alla quale facilmente tendono a cedere tutti i sistemi in cui
la sanità acquista una valenza pubblica ed è inevitabilmente “amministrata” in
modo burocratico. Quel che è certo è che Piergiorgio Welby non aveva il diritto
di chiedere l’eutanasia; aveva però tutto il diritto di rifiutare (dopo essere
stato compiutamente informato delle conseguenze della sua decisione) l’uso a
suo carico del respiratore meccanico. Questo rifiuto non implicava, ovviamente,
il venir meno del dovere del medico di praticare a suo favore –anche
successivamente al distacco del respiratore- tutte quelle forme di palliazione
e di sedazione che il medico stesso, in scienza e coscienza, avesse ritenuto
necessarie a fini strettamente palliativi..
Concludo.
Quello che davvero ci ha insegnato il caso Welby è che la bioetica ha una
dimensione antropologica, in cui si
sintetizzano questioni sociali e coesistenziali di tipo etico, religioso, simbolico,
irriducibili alla logica degli interessi sociali, di cui essenzialmente la
politica si fa carico. La prova di quanto detto si ha in quegli ordinamenti in
cui la legalizzazione dell’ eutanasia volontaria, nel nome del rispetto che si
dovrebbe avere nei confronti dei pazienti, qualora manifestassero una
consapevole volontà di morire, ha prodotto come effetto l’ attivazione di un
controllo burocratico sulla fine della vita umana, che si è lentamente esteso fino a coinvolgere i malati
psichiatrici, i malati anziani cronici e perfino (col c.d. protocollo di
Groeningen) i neonati portatori di handicap. Non entriamo nel merito di quanto
possano influire nella soppressione legale di tanti malati motivazioni
politico-economiche (ma sappiamo che influiscono molto!). Limitiamoci a dire
che la pietà che tutti dobbiamo avere per Pergiorgio Welby e per le sofferenze
che ha patito deve accompagnarsi alla pietà che è doveroso nutrire verso tanti
altri malati, di estrema fragilità fisica e psichica, che hanno il diritto di aspettarsi dal sistema sanitario e da ciascuno
di noi parole di vita e non di morte, di prossimità e non di abbandono, di
speranza e non di disperazione necrofila.