Che cosa ne sarà dell’Occidente dopo l’invasione della Georgia?
19 Agosto 2008
L’invasione di confini internazionalmente riconosciuti da parte della Russia, la batosta che essa ha inflitto all’esercito georgiano e la sua soddisfazione compiaciuta nell’umiliare uno dei suoi antichi possedimenti sono solo la parte visibile del danno.
Aver coperto di sangue la Georgia è un male, ma le conseguenze ad ampio raggio sono ancora peggiori. Mentre la Georgia bruciava gli Stati Uniti hanno tergiversato, ci sono voluti ben tre giorni di invasione russa perché le sue dichiarazioni pubbliche cominciassero ad assumere un tono retoricamente appropriato, ma finora alla retorica non si è accompagnato nulla che assomigli anche lontanamente a un’azione decisa. Questo tipo di atteggiamento è la perfetta definizione di una “tigre di carta”. Spedire il segretario di stato Condoleezza Rice a Tbilisi è stato un gesto commovente, ma ben poco rassicurante; inviare aiuti umanitari è né più né meno quello che avremmo fatto se la Georgia fosse stata colpita da una catastrofe naturale, e non da uno scempio deliberato.
L’Unione Europea ha impugnato le redini della diplomazia, con risultati che fanno ripensare all’effimero momento di gloria di Neville Chamberlain a Monaco: un cessate il fuoco che ha dimenticato di menzionare l’integrità territoriale della Georgia, e che di fatto ha accordato alla Russia il permesso di proseguire le sue manovre militari in qualunque punto del paese a titolo di “forza di pace”. Ancora più inquietante, in una prospettiva di lungo corso, è il fatto che la UE abbia ritenuto di dover mediare – il suo ruolo prediletto – tra la Georgia e la Russia, invece di sostenere la causa delle vittime dell’aggressione.
Questa sconfortante prestazione è però bastata a relegare la Nato a un ruolo di terzo piano, mentre i carri armati e gli aerei russi si accanivano su un “paese lontano”, come Chamberlain si espresse una volta con la consueta ponderazione. A New York, paralizzato dalla prospettiva di un veto russo, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il “tempio dei grandi saggi”, è risultato inutile come durante la guerra fredda. A voler essere onesti con la Russia, bisogna riconoscerle che sembra ancora in grado di capire come si esercita il potere nel consiglio, mentre altri membri permanenti sembrano spesso averlo dimenticato.
Per l’Occidente nel suo complesso questa crisi è stata un fallimento. La Georgia ha sprecato il suo gettone con la proverbiale telefonata delle 3 di mattina alla Casa Bianca, quella cui alludeva Hillary Clinton in uno spot elettorale chiedendosi se Barack Obama avesse la stoffa per diventare presidente. Inoltre il sangue sulle zampe dell’orso non è sfuggito all’attenzione di altri stati che in passato furono membri dell’Unione Sovietica. La Russia ha dimostrato con perfetta chiarezza che avrebbe potuto marciare su Tbilisi e insediare un governo fantoccio prima che uno qualunque dei leader occidentali distogliesse gli occhi dalle Olimpiadi. Si può ipotizzare che lo stesso accadrebbe per ognuno di quei paesi.
Una delle reazioni che la Russia voleva suscitare era la paura, e la paura ha ottenuto, e non solo nel “cortile di casa”, cioè nei vicini paesi ex-sovietici, ma anche nelle capitali dell’Europa occidentale. Il suo obbiettivo, però, era l’egemonia, che ha dimostrato di esercitare promettendo di ricostruire Tskhinvali, la capitale dell’Ossezia del Sud, suo antico e ormai non più futuro possedimento. Il contrasto è dei più netti: la Russia ha dato una dimostrazione concreta di come si usano il bastone e la carota, mentre i diplomatici americani ed europei non fanno che parlarne. Quel che è peggio, la Russia è ormai a un soffio dall’impadronirsi dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, l’unica via di esportazione del petrolio del mar Caspio non controllata dalla Russia o dall’Iran. Perderla sarebbe drammaticamente svantaggioso se la nostra speranza è veder scendere progressivamente il prezzo del petrolio a livello mondiale e ottenere l’indipendenza energetica da stati ostili, o anche solo potenzialmente ostili.
C’è ben poco da guadagnare a incolpare la Georgia per aver “provocato” l’attacco russo. Né è molto onorevole per gli Stati Uniti consentire che dei quadri anonimi del suo dipartimento di stato riferiscano ai giornalisti, come è accaduto all’inizio della settimana scorsa, di avere cercato di dissuadere la Georgia dal provocare la Russia. Qui non si tratta di stabilire chi abbia violato le regole del marchese di Queensbury in Ossezia del Sud, dove la violenza etnica è cosa di tutti i giorni fin dallo sfascio dell’Unione Sovietica, il 31 dicembre 1991, e a voler essere esatti da molto tempo prima. Il vero problema, piuttosto, è capire come la Russia intende comportarsi in politica estera nei prossimi decenni. Che Mikheil Saakashvili abbia “provocato” o meno l’esercito russo lo scorso 8 agosto, o l’8 settembre, o in qualunque altra data, questo scempio era accuratamente pianificato ed era chiaramente nell’aria, data l’evidente indisponibilità della Georgia a farsi “finlandizzare”, per usare il termine che all’epoca della guerra fredda indicava la perdita dell’indipendenza in politica estera.
"Che fare?”, dunque, come soleva domandarsi un altro Vladimir in passato. Tre punti vanno tenuti presenti se vogliamo ripristinare la nostra credibilità in America: prendere nettamente le distanze dalla Russia; ottenere l’attenzione dell’Europa; misurare il nostro vigore interno. Se la storia parlerà o meno dell’invasione olimpica della Russia come del primo passo verso la ricostruzione del suo impero dipende, e in modo decisivo, dall’amministrazione Bush, se sarà in grado di resuscitare la sua determinazione un tempo ferrea in questi suoi ultimi giorni, e dalle scelte degli elettori americani il prossimo novembre. Anche l’Europa ha un ruolo cruciale, e dicendo questo alludo all’Europa in carne ed ossa, cioè ai suoi singoli stati nazionali, non alle burocrazie e alle interminabili riunioni di Bruxelles.
Primo, la Russia ha fatto capire molto chiaramente di non essere disposta a tollerare l’esistenza di una terra di nessuno tra i propri confini e i confini dei paesi Nato. Fin dai tempi del patto di Varsavia e del collasso dell’Unione Sovietica questo è stato un problema di assoluto rilievo che ha lungamente influenzato le scelte della Nato in fatto di adesioni: il timore era che paesi situati nello “spazio vuoto” tra la Nato e la Russia risultassero più esposti al rischio di un’aggressione russa che se fossero entrati a far parte della Nato. Il potenziale di instabilità e conflittualità era evidente.
La vera provocazione nei confronti della Russia è stato il rifiuto dell’Europa di accettare nella Nato l’Ucraina e la Georgia la scorsa primavera, una mossa che ha denunciato la debolezza e la timidezza dei paesi occidentali. Finché Mosca continuerà a respirare quest’aria, gli altri paesi dell’ex Unione Sovietica, e perfino altre regioni instabili come il Medio Oriente, saranno minacciati.
Come è logico non tutti gli ex paesi sovietici sono di importanza vitale per la Nato come lo sono l’Ucraina, a causa della sua mole e della sua posizione strategica, o la Georgia, per il suo ruolo chiave nell’accesso al petrolio e alle riserve di gas naturali del bacino caspico. Alcuni di questi, per giunta, non soddisfano alcuni requisiti fondamentali per l’ingresso nella Nato. Ora si impone però di riconsiderare i nostri rapporti con essi. È quello che la Nato non è stata in grado di fare dopo la rivoluzione arancio e la rivoluzione delle rose, lasciandoci in una posizione indifendibile.
Invadendo la Georgia, la Russia ha dichiarato senza ambiguità che il suo obbiettivo a lungo termine è provvedere a riempire lo “spazio vuoto”, dato che non lo facciamo noi. Questo è “inaccettabile”, per usare una parola che piace molto ai leader occidentali. Si impone di conseguenza la necessità di un vertice Nato per rovesciare la capitolazione di questa primavera a Bucarest e stabilire che l’Ucraina e la Georgia saranno i prossimi paesi a entrare nella Nato. Assumere una posizione chiara non significa provocare la Russia, ma fare esattamente l’opposto: far sapere loro che un atteggiamento aggressivo avrà un prezzo che non saranno disposti a pagare, stabilizzando così una cerniera chiave tra la Russia e l’Occidente. A ben guardare abbiamo già fatto lo stesso in Estonia, Lettonia e Lituania.
Secondo, gli Stati Uniti hanno bisogno di parlare senza peli sulla lingua con alcuni dei nostri amici europei, come avrebbero già dovuto fare molto prima che la Georgia fosse invasa. Certo, l’inazione americana ha offerto al presidente francese Sarkozy e alla UE la possibilità di prendere l’iniziativa a livello diplomatico. La Russia, però, non ha invaso la Georgia con i rubli o con i diplomatici, ma con i carri armati. È una minaccia alla sicurezza, e il luogo appropriato per discutere le minacce alla sicurezza dei confini dei paesi Nato – ebbene sì, cara Europa, questo significa Turchia – è la Nato.
Questo può forse spaventare le capitali europee, ma è giunto il momento di scoprire se la Nato è in grado di affrontare l’eventualità di un nuovo scontro con Mosca, o se l’Europa sarà stata la causa del suo declino. Meglio presto che tardi, in questi casi, prima che la posta in gioco si faccia proibitiva. Se dalla caduta del muro di Berlino c’è stato un momento in cui l’Europa avrebbe fatto meglio a preoccuparsi, quel momento è ora. Se gli europei non sono disposti a impegnarsi attraverso la Nato non c’è più bisogno di sapere altro sul vero stato di salute di quella che in fondo, a ben guardare, è una alleanza “Nord Atlantica”.
Terzo e ultimo: il passo più importante avrà luogo negli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali del 4 novembre offriranno agli americani un’occasione per prendere il polso del paese, dato il forte contrasto tra le reazioni del senatore McCain e (almeno all’inizio) quelle del senatore Obama di fronte alla Blitzkrieg della Russia. Le reazioni a caldo, prima che i sondaggisti e i consulenti entrino in azione, sono sempre i migliori indicatori delle vere posizioni di un candidato. McCain ha subito compreso il significato più ampio, geostrategico, dell’attacco russo, e la necessità di una risposta forte, mentre in un primo momento Obama è sembrato timoroso e tentennante quanto l’amministrazione Bush. Per una strana ironia, successivamente Obama si è avvicinato all’approccio più robusto sostenuto da McCain, solo più tardi seguito da Bush.
Comunque andranno le cose, bisognerà organizzare un’approfondita tribuna elettorale sulle implicazioni della marcia della Russia sulla Georgia. Già prima di questi fatti McCain aveva proposto di espellere la Russia dal G8; altri avevano suggerito di bloccare il suo iter di adesione al WTO o di imporre sanzioni economiche fino a quando le sue truppe non si saranno ritirate. Obama ha messo ogni cura nell’evitare di affrontare dettagli specifici in materia di politica estera – se si eccettua la promessa di un pronto ritiro dall’Iraq – ma ormai non potrà più contare su un simile lusso. Abbiamo bisogno di sapere se la ripresa del tema della campagna elettorale di George McGovern nel 1972, “America, torna a casa!”, è davvero quello che i nostri elettori chiedono, o se siamo ancora disposti a perseverare in circostanze difficili, come McCain ha sempre sostenuto con coerenza. La pavida Europa dovrebbe sperare, nel proprio interesse, che l’America scelga quest’ultima strada.
© AEI
(Traduzione di Francesco Peri)