Che democrazia liberale è quella in cui i padroni dell’agenda politica sono i giudici?

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Che democrazia liberale è quella in cui i padroni dell’agenda politica sono i giudici?

31 Agosto 2010

Intervistato su Radio Tre, Oscar Bartoli, un manager che ha lavorato a lungo all’Iri ai tempi di Romano Prodi (ne fu vicedirettore) e da anni vive a Washington dove ha fondato l’International Liaison Group – società di consulenza per aziende e associazioni italiane e americane –, ha parlato dell’opposizione della ‘destra’ repubblicana alla moschea nell’area di Ground Zero in termini inequivocabilmente sprezzanti. E’ una vergogna, lasciavano a intendere le sue parole, che ci siano ancora oggi persone che si oppongono al dialogo tra le religioni, alla tolleranza, ai diritti civili. Che tali scampoli del «mal seme d’Adamo» possano addurre qualche ‘ragione’ è sospetto che non sembrava neppure sfiorare questo eminente ambasciatore del politicamente corretto made in Italy.

L’intervista a Bartoli costituisce un’ennesima riprova dell’incompatibilità radicale tra la democrazia liberale e le sue molteplici «imitazioni». Si tratta di contraffazioni in uso in tutte le famiglie ideologiche del nostro tempo, e non solo in Italia. Sia la destra tradizionalista che la sinistra, infatti, non sembrano ancora rassegnate al fatto che l’etica e la politica sono «senza verità»: non ci sono leggi emanate da Dio o iscritte nella natura o dettate dalla Ragione che siano in grado di prescrivere infallibilmente questo o quell’agire politico, di sostenere questa o quella legge, questa o quella misura governativa. Il vecchio Platone lamentava che le decisioni collettive si fondassero sull’opinione (la ‘doxa’) e non sulla ‘verità’ (l’aletheia) ma, se così non fosse, che senso avrebbe la democrazia liberale? Se si potesse provare che certe disposizioni che riguardano il vivere in comunità sono fondate su Dio o sulla Ragione o sulla Natura, il governo della cosa pubblica dovrebbe venir affidato, nei vari casi, al buon pastore che conosce i piani dell’Onnipotente, al philosophe che sa cosa detta la Raison, al partito unico, le cui vele sono mosse dal vento del Progresso.

Il fatto è che, in questa malinconica valle di lacrime, in cui ci tocca transitare, ogni soluzione data a un problema di convivenza sociale sta nel campo dell’ «opinione». L’infallibilità è solo dei pontefici romani – come l’autore del ‘Sillabo’ – e la giustezza di qualsiasi decisione politica, economica e culturale, a causa del ‘legno storto dell’umanità’ di kantiana memoria, resta sempre problematica. Vedendo sfilare alla TV i cortei dei newyorchesi favorevoli e dei contrari alla Moschea a Ground Zero e leggendo i loro slogan con i richiami agli stessi ‘principi’ interpretati in modo differente, non si ha la sensazione di trovarsi dinanzi alla lotta tra una ragione e  un torto ma al confronto di due diverse ragioni tra le quali tocca alla democrazia dover scegliere. Ma, ed è questo il punto cruciale, la democrazia cui spetta la parola decisiva va «presa sul serio», non può essere quella foggiata a proprio uso e consumo da quanti sono pronti a degradarla a ‘tirannia della maggioranza’ quando le urne danno un esito per loro insoddisfacente.

E qui veniamo al vero «conflitto del nostro tempo» che, al di là dei dilemmi etico-politici che continuano a dividerci – la moschea, il crocifisso nelle scuole, la politica nei confronti dell’immigrazione irregolare, l’ordine pubblico, il riconoscimento delle coppie gay e, in Italia, persino il tricolore e l’inno nazionale – riguarda i confini tra la morale, il diritto, la politica. In parole povere, a separarci è una diversa idea dell’«ordine del giorno politico», ovvero delle materie che possono costituire oggetto di dibattito pubblico e, quindi, essere sottoposte al giudizio del popolo sovrano: o direttamente, mediante il referendum, o indirettamente, delegando la decisione ai suoi rappresentanti parlamentari.

Per intellettuali militanti come Oscar Bartoli, il diritto degli islamici a costruire una moschea vicino a Ground Zero è iscritto nella Costituzione americana e, pertanto, chiamare i cittadini a pronunciarsi in materia significherebbe la cancellazione dei ‘sacri principi’ da parte della politica. Non diverso, per citare un caso non meno significativo, è l’atteggiamento del Sinodo delle chiese valdesi e protestanti che si è concluso recentemente «con un forte richiamo affinché i crocifissi vengano rimossi da tutte le aule scolastiche pubbliche, eseguendo così una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (contro la quale, invece, il governo italiano aveva presentato ricorso)». A differenza del vescovo di Pinerolo, Piergiorgio Debernardi, non trovo nulla di scandaloso nell’opinione espressa dai valdo-metodisti italiani che «rimuovere il crocifisso dalle scuole pubbliche, sia il modo migliore di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia». Opinione per opinione, la mia è del tutto diversa e potrei argomentarla con pagine e pagine di storia del pensiero politico risorgimentale. Quello che, invece, m’induce a disperare per le sorti della convivenza civile nel nostro Occidente aperto, pluralista e tollerante, è l’assoluta sicurezza con cui il Sinodo ritiene di interpretare una concezione più giusta, più avanzata, più in linea coi progressi della coscienza morale, rispetto agli attardati difensori del simbolo religioso che, più di ogni altro, sintetizza (anche per gli agnostici come me) la tormentata storia dei popoli euro-atlantici. Il problema, peraltro, non riguarda solo il crocifisso ma, altresì, temi etici come la ricerca sulle cellule staminali embrionali e i registri per il testamento biologico sui quali (da sempre) mi trovo d’accordo con i valdesi. Per un liberale laico (e non laicista) si tratta, lo ribadisco, di ‘dilemmi’ proprio perché ci sono buone ‘ragioni’ da una parte e dall’altra: se così non fosse, adottare una soluzione piuttosto che un’altra a colpi di maggioranza sarebbe fare della ‘forza’ l’arbitro dei destini umani, consentendo in questo caso al ‘numero’, alla ‘quantità’, di schiacciare la ‘qualità’ sotto il peso delle schede elettorali.

La mens dogmatica, madre della mens totalitaria, può ben definirsi come quella che cancella dal mondo tutto ciò che è «opinabile», rimuovendone quell’incertezza ontologica iscritta nella concezione biblica del ‘peccato originale’ e che, con la sua idea della natura umana corrotta, fonda in definitiva il liberalismo dei moderni (perché si dovrebbe diffidare del potere – e allestire un apparato istituzionale di controllo – se i suoi detentori sono ‘naturalmente’ buoni?). In età democratica, la mens dogmatica può anche rassegnarsi a «mettere ai voti» una «buona legge», se non altro per inchiodare al risultato delle urne i suoi oppositori, ma nell’intimo ritiene che in una comunità sana non ci sia bisogno di votazioni per far valere principi incontrovertibili (per lei). In campo bioetico, sa bene, se milita nelle compagnie della Fede, che staccare la spina a un malato terminale con elettroencefalogramma piatto è un assassinio mentre se milita sotto la bandiera del laicismo e dell’ Associazione Giordano Bruno, nessuno riuscirà a convincerla che rifiutarsi di farlo abbia qualcosa a che vedere col rispetto della vita, sicché, in entrambi i casi, alle considerazioni di chi ha una diversa filosofia non viene riconosciuta alcuna valenza etica.

In passato, del controllo dell’ordine del giorno venivano investiti il Vicario di Dio, il monarca assoluto, il Partito: oggi, crollate le autorità spirituali e temporali sotto le macerie della storia, quel potere viene conferito al giudice. E’ lui che, brandendo la spada di costituzioni che non si limitano a garantire le libertà individuali ma intendono definire, altresì, i diritti positivi assegnati ai vari gruppi sociali, restringe o allarga l’ambito delle materie sulle quali è possibile discutere, confrontarsi e votare. Se una legge conferisce a un datore di lavoro la facoltà di disfarsi di prestatori d’opera assenteisti, incapaci e inefficienti o se il mercato non consente di tenere in vita aziende non in grado di fronteggiare la concorrenza internazionale e, pertanto, costrette a chiudere i battenti, si può sempre trovare un magistrato che dichiari insufficienti i motivi di licenziamento di lavoratori e quadri tecnici. Se mancasse un ampio accordo bipartisan sulla necessità di intervenire nelle «guerre americane» del Medio Oriente, al governo che avesse deciso di mandar truppe in Afghanistan, quasi certamente verrebbe sbattuto in faccia l’art. 11 della Costituzione.

Insomma, il potere giudiziario sembra essere diventato il nuovo sovrano giacché esso disegna, «sovranamente», l’area del lecito e dell’illecito, del legittimo e dell’illegittimo. In tal modo, il diritto da difesa contro l’oppressione e l’invadenza del polipone statale è divenuto la sua guardia pretoriana. Sennonché i tentacoli rimangono gli stessi e anzi si moltiplicano giorno per giorno – fuor di metafora, l’invadenza della sfera pubblica e la subordinazione di tutta la dinamica sociale all’interesse collettivo sono più rigogliose che mai – ma a mettere in moto il Leviatano non sono più il popolo sovrano e i suoi rappresentanti bensì i custodi supremi (che nessuno ha eletto) dei suoi «diritti imprescrittibili».

Il punto di svolta è giustificato dalla possibilità – testimoniata sovente dal secolo breve – che il popolo sovrano scelga male ovvero s’inganni sui propri reali interessi, sicché diventa necessario metterlo in condizione di non farsi del male, escludendo dal dibattito pubblico le condizioni istituzionali delle sue libertà e dei suoi diritti. Dietro tale mutamento, che si direbbe epocale per le sue conseguenze di lunga durata, c’è il tipo di filosofia politica illustrata in apertura. C’è la sicurezza morale e intellettuale di chi ritiene possibile individuare, sempre e comunque, gli «interessi reali» del paese e ritiene suo dovere delegittimare come passatista e reazionario ogni interpretazione del ‘bene pubblico’ diversa dalla sua. L’insegna del «non si torna indietro», da programma di una pars politica è divenuta l’ideologia del potere giudiziario sicché non meraviglia che i suoi più strenui difensori si trovino tra gli eredi (presunti) dei ‘Lumi’, tra quei partiti che, fidando sul sostegno popolare (mai arrivato, peraltro, alla fatidica soglia del «50 + 1») avrebbero voluto ridimensionare drasticamente il «governo dei giudici», ravvisando in esso il bastione dell’ordine sociale borghese. (continua)