Che fare del Nuovo Centrodestra?
17 Giugno 2014
Le europee hanno chiuso una fase nella vita di Ncd. L’asticella che tanto ci spaventava e che ci aveva fatto esitare “perché in cinque mesi non ce la faremo mai a passare lo sbarramento” è stata superata. Ma quel quattro e mezzo per cento, come giustamente osservò Maurizio Lupi la prima volta che ci vedemmo dopo le elezioni, può rappresentare il punto di arrivo o il punto di partenza. Un’altra fase si è aperta, e se vogliamo che sia il punto di partenza servono risposte organizzative ma soprattutto sul piano politico.
Il quadro è mutato perché da un governo di emergenza siamo passati a un governo di ricostruzione nazionale. Quello di Enrico Letta era un esecutivo a tempo, formato da due schieramenti arrivati pari alle elezioni, e con un premier che, grazie anche alle sue caratteristiche umane, si sforzava di rappresentare una sintesi delle diverse posizioni, giungendo per questo anche a instaurare un rapporto dialettico con il suo partito.
Ora è cambiato tutto. È finito il PdL e noi abbiamo fondato il Nuovo Centrodestra. Non c’è più Enrico Letta ma Matteo Renzi. Soprattutto, il governo non è più a tempo ma è nelle intenzioni un governo di legislatura e di rifondazione del Paese di fronte al perdurare della crisi. Renzi inoltre è il capo del Pd, e le europee ci hanno consegnato nuovi rapporti di forza con il partito del presidente del Consiglio che ha sfondato il 40 per cento (non accadeva dal 1958) e lo junior partner nella maggioranza di governo che in condizioni a dir poco avverse è riuscito a non farsi spazzare via come invece è capitato a Scelta Civica.
In ogni caso, il gioco per noi si è fatto molto più complesso. Il risultato elettorale ha segnato una dimensione che i numeri in Parlamento possono correggere ma non annullare. Nel restante centrodestra si sono affermate posizioni estreme come quelle della Lega e di Fratelli d’Italia. E, al momento, la sentenza di morte emessa nei nostri confronti da Forza Italia per mezzo del suo house organ non sembra essere stata revocata.
Che fare? Io non credo si possa mettere in dubbio la scelta del governo e neppure limitarne a priori la durata (richiesta che tra l’altro suonerebbe velleitaria, visti i rapporti di forza). Per diverse ragioni. Perché al fondo avevamo ragione noi: gli italiani hanno chiesto governo, stabilità e riforme, ed è su questo terreno che abbiamo preso un milione e duecentomila voti, sfuggendo alla mannaia che invece ha colpito tutti coloro che hanno provato ad andare oltre il berlusconismo. Non lo penso perché il Paese ha bisogno di un mutamento profondo, in campo economico e istituzionale, per uscire da una crisi giunta ormai al suo settimo anno. Non lo penso, infine, perché solo costruendo un pavimento comune noi potremo edificare la terza fase del bipolarismo repubblicano: dopo quello coatto determinato dalla guerra fredda e dal “fattore k”, dopo quello rusticano caratterizzato dalla antinomia tra berlusconismo e antiberlusconismo, giungere finalmente alla fase del bipolarismo europeo.
Il problema, dunque, non è mandare avanti il governo per tutta la legislatura, ma è come starci e in quale prospettiva. E qui fisserei il secondo caposaldo della nostra posizione.
Noi dobbiamo aprire un dialogo con tutti quelli che non credono che l’Italia possa essere governata da un solo partito della nazione. Non solo perché non è giusto, ma soprattutto perché è impossibile: in fondo non ce la fece nemmeno la Democrazia cristiana che più che un partito fu un mondo. I partiti della nazione dovranno essere almeno due. Per questo, la nostra azione dovrà rivolgersi a tutti coloro che non prendono nemmeno in considerazione l’ipotesi di diventare la gamba destra del Pd; a tutti quanti si riconoscono nell’orizzonte ideale del popolarismo e in prospettiva intendono costruire un’alternativa al Pd all’interno di uno schema originalmente bipolare. Questo significa che al governo bisogna trovare spazio, avere iniziativa e proiettarla anche nel Paese attraverso un partito.
Il terzo caposaldo riguarda la collocazione politica. È il più difficile da mettere a fuoco, perché noi tendiamo a ragionare con le categorie del passato in un sistema politico che stiamo provando a trasformare. Rischiamo perciò di cristallizzare categorie come centro, centrodestra, moderati, che già oggi, laddove non attualizzate, hanno perso qualsiasi valenza descrittiva. È evidente, ad esempio, che Renzi con la sua politica ha operato uno sfondamento nell’area del centrodestra, e che Angelino Alfano sull’immigrazione si sia giustamente fatto carico di una dimensione solidaristica che si riteneva appannaggio della sinistra…
Quel che voglio dire è che ognuno di noi ha una storia che conta e dei principi ai quali non è disposto a rinunciare. Questi elementi, però, in un quadro in trasformazione non si traducono automaticamente in una classificazione politica predeterminata. Sentirsi alternativi al Pd per storia, idee e valori, insomma, non significa meccanicamente ingabbiarsi nel vecchio centrodestra, a meno di non considerare il centrodestra come una categoria etnica e non come una collocazione politica.
La ricostruzione di un rapporto dipenderà dalle politiche che gli attuali partiti di quest’area proporranno e dalla volontà effettiva di attivare una collaborazione pur trovandosi chi al governo e chi all’opposizione. Se le politiche del vecchio centrodestra andranno sempre più in senso antieuropeo e di isolamento autarchico, se punteranno a trasformare il Mediterraneo in un gigantesco cimitero sommerso, chi ha vissuto il nostro percorso non troverà con esse punti di contatto. Diverso è, invece, se la posizione moderata piuttosto che farsi trascinare sarà in grado di attrarre le altre forze.
È evidente, insomma, che il nostro quattro e mezzo per cento potrà essere un punto di partenza se e solo se riuscirà ad aggregare quanti intendono partecipare al processo di ricostruzione del Paese e costruire il pavimento comune della Terza Repubblica; hanno principi e idee differenti dal Pd e in prospettiva ritengono di dover rappresentare rispetto ad esso un’alternativa; in nome di queste idee e di questi principi sono disposti a considerare la collocazione politica come un elemento empirico e approssimativo e non come una scelta etnica aprioristica.
Questa prospettiva vale sia nella dimensione parlamentare, dove certamente avere un grande gruppo servirebbe a rinsaldare il governo e a guadagnare forza autonoma nei confronti di Renzi, sia rispetto all’elettorato.
In definitiva: che fare? Per quanto riguarda i gruppi parlamentari unici, o si fanno subito o è molto meglio riparlarne in seguito, per non avvitarsi in un eterno dibattito che blocca qualsiasi tipo di azione. Piuttosto c’è da concentrarsi subito sull’iniziativa di governo e sull’iniziativa politica. Nell’esecutivo, guadagnando uno spazio autonomo non solo nelle proposte ma soprattutto nella loro leggibilità esterna, perché non possiamo più essere il docile alleato di Renzi e neppure il suo centro studi. All’esterno, dobbiamo riconquistare spazio di mobilitazione attraverso proposte che rappresentino i nostri principi e il cui precipitato possa trasformarsi in iniziativa di governo. In tal senso, le leggi di iniziativa popolare che stiamo promuovendo su fisco e famiglia, sulla giustizia e soprattutto sul semi-presidenzialismo rappresentano solo il primo passo della ripartenza.
Quindi: per stare al governo e partecipare alla ricostruzione del Paese bisogna non darlo per scontato e cercare di guadagnare forza autonoma nei confronti del Pd; per riuscire in questo solco a ricostruire un’alternativa alla sinistra bisogna non dare per scontato l’alleanza con l’attuale centrodestra e incalzarlo sulle iniziative e sulle proposte politiche concrete. Tutto il resto o è contraddizione insanabile, o è punto d’arrivo e non ripartenza.