Che Guevara: il mito senza maschera

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Che Guevara: il mito senza maschera

14 Giugno 2007

“Come nel teatro kabuki, la nostra vita politica è fatta di maschere che celano o distorcono la verità e noi spettatori abbiamo finito col convincerci che le maschere siano le vere facce dei protagonisti”. Con questa breve metafora, Alvaro Vargas Llosa (economista, figlio del grande romanziere peruviano Mario) sintetizza il mito dell’America Latina. Che è un mito negativo, quando si parla del “neoliberismo” di Menem, mito positivo quando l’eroe è Che Guevara. Con “Il mito Che Guevara e il futuro della libertà” (112 pagine, Lindau, Torino 2007), Vargas Llosa leva la maschera all’informazione scorretta sull’America Latina e ci mostra il vero volto del sub-continente. E lo fa con semplicità, con dati precisi e con un linguaggio avvincente, in un libro (anzi: tre lunghi articoli raccolti in un unico saggio) che si può leggere tutto d’un fiato. Ma non è un lavoro facile, perché le leggende hanno la scorza dura. Che Guevara, come ricorda Vargas Llosa nel primo dei tre articoli, fu una vera “macchina per uccidere”, come egli stesso si definì nel suo messaggio alla Conferenza Tricontinentale: “L’odio come fattore di lotta, l’odio intransigente verso il nemico, che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”. Eppure questo predicatore di morte è diventato un gadget e un simbolo di pace: “Si va da The Che Store, il sito Internet che può soddisfare ‘tutte le vostre esigenze rivoluzionarie’, al giornalista italiano Gianni Minà, che ha venduto a Robert Redford i diritti cinematografici del diario tenuto da Guevara durante il suo viaggio in motocicletta del 1952 in diversi paesi del Sud America, in cambio della possibilità di girare un documentario sulla realizzazione del film ‘I diari della motocicletta’”.

Perché la memoria ha rimosso la violenza? Perché ha trasformato il Che da “macchina assassina” in volto della speranza per un continente e per un’intera classe sociale in cerca di emancipazione? Vargas Llosa ha una sola risposta possibile: il potere inganna e si fa amare. Che Guevara fu soprattutto un uomo di potere. Fu spietato con i guerriglieri ai suoi ordini, fu la mente del regime cubano dal momento della sua instaurazione nel 1959, fu il responsabile di centinaia di esecuzioni nel carcere della Cabaña nelle prime settimane di potere, allacciò subito le relazioni con il regime sovietico, organizzò i primi campi di concentramento per i prigionieri politici e gli “asociali” (tra cui gli omosessuali) e creò un sistema economico autoritario che andò ben presto in bancarotta.

Gli uomini tendono a dimenticare le brutture e i fallimenti del potere, ma a ricordare bene le sue promesse iniziali: libertà, uguaglianza, progresso, pace. E questo non è un discorso che vale per il solo mito di Che Guevara: è una tragica illusione che dura da sempre, soprattutto in un continente come l’America Latina, dove allo splendore dei palazzi barocchi edificati dai coloni spagnoli corrispondeva l’immobilismo e l’arretratezza di una monarchia dispotica e assolutista, allo splendore dei templi Maya e Aztechi corrispondeva l’orrore di grandi tirannidi teocratiche sanguinosissime e in bancarotta.

Che Guevara e i miti populisti che stanno sorgendo in questo decennio (Chavez, Morales, il subcomandante Marcos, tanto per citarne alcuni) non sono differenti dai loro predecessori, nemmeno di quelli contro cui hanno combattuto: sono i continuatori di questa lunga tradizione di tirannie, dalla quale l’America Latina non riesce a liberarsi. Perché non riesce? A questa domanda tenta di rispondere il secondo articolo di Vargas Llosa, dal titolo significativo: “Il liberalismo dell’America Latina: un miraggio?”. Perché negli anni ’90, dopo decenni di fallimenti del socialismo e del corporativismo latino-americano, il Sud America poté assaporare anche solo l’odore della libertà, ma perse subito il gusto? Per spiegarlo, Vargas Llosa deve smontare un altro mito: quello del “neoliberismo” dei governi di destra, come Menem in Argentina e Fujimori in Perù, che di liberale o liberista avevano ben poco. La crisi dei loro sistemi, in particolare il crollo dell’economia argentina del 2002 non può essere intesa come un fallimento del mercato, semplicemente perché non era un sistema di mercato libero. O almeno: le riforme liberali in America Latina furono riforme lasciate a metà strada. Furono effettuate le privatizzazioni, ma lasciate le leggi che proteggevano i monopoli; furono aboliti i dazi per alcuni prodotti, ma non per altri; furono liberalizzati solo alcuni settori, ma il sistema fondato su corporazioni protette dallo Stato rimase pressoché intatto. In parole povere: rimasero in piedi tutti i privilegi tipici dei vecchi sistemi collettivisti, in uno scenario che ricorda molto da vicino (in modo preoccupante) le privatizzazioni in Italia. Il risultato: la ricchezza non si diffuse, ma si restrinse ulteriormente la cerchia dei privilegiati, crebbe il divario tra ricchi e poveri e l’economia locale non resse a lungo la competizione globale.

In quegli Stati, ancora prevalentemente autoritari e dirigisti, non c’era il governo della legge, non erano pienamente rispettati i diritti individuali (tra cui, soprattutto, il diritto di proprietà individuale), non c’era una magistratura indipendente, né esisteva il rispetto di una sfera di libertà personale dei cittadini. E soprattutto è mancata una cultura della libertà: le scuole, prevalentemente statali, con un corpo insegnanti formato su idee collettiviste, hanno sfornato nuove generazioni di studenti educati all’odio per il capitalismo, per il profitto, per l’iniziativa individuale. E per questo l’effetto delle riforme economiche, anche quelle più coraggiose, è stato in gran parte vanificato.

Ma c’è una speranza di libertà per l’America Latina? Vargas Llosa, alla fine, è ottimista. Per rispondere a questa domanda, nel suo ultimo articolo, “Il retaggio dell’individualismo nell’America Latina”, va a ripescare quei piccoli spiragli di libertà che resistettero alla repressione degli imperi pre-colombiani: i commerci tra i villaggi nelle Ande, qualche città mercantile che riuscì a coesistere con gli Aztechi nell’antico Messico, forme primitive di scambio e di tutela della proprietà individuale. Questo germe di libertà non poté svilupparsi sotto l’impero spagnolo e portoghese nei secoli di dominazione. Ma sopravvisse e fu rafforzato dalla filosofia proto-liberale della Scuola di Salamanca, che sancì l’inviolabilità del diritto naturale, santificò il diritto di proprietà, negò il valore oggettivo dei beni (teorizzando la legge della domanda e dell’offerta come base per stabilire il prezzo), condannò la schiavitù e giunse a teorizzare il tirannicidio. Furono soprattutto queste le idee che attizzarono i primi dissidi tra i coloni di Gonzalo Pizarro e la corona di Spagna, che sopravvissero nei secoli, pur sotto la repressione dell’assolutismo e animarono la rivoluzione indipendentista del 1820. In tutti i casi le componenti liberali rivoluzionarie soccombettero sotto i colpi di nuove tirannie, conservatrici o progressiste. Tranne in uno: l’Argentina costituzionale dal 1853 agli anni ’30 del ‘900. Il padre della Costituzione argentina del 1853, Juan Bautista Alberdi, è uno dei pochi liberali latino-americani che riuscì a cambiare il corso della storia del continente. La sua “creatura” ebbe più successo di quanto non si ricordi: settant’anni di progresso economico, immigrazione, crescita demografica e libertà.

Purtroppo la cultura populista prevalse di nuovo e pose fine all’unica grande esperienza liberale del sub-continente. A ulteriore dimostrazione che la libertà è indivisibile: per permettere alla libertà economica di sopravvivere, devono essere rispettati i diritti individuali. Per far sì che anche questi ultimi sopravvivano, è necessaria una cultura della libertà. Tale cultura è esistita ed esiste ancora nell’America Latina: può ancora vincere in futuro.

Alvaro Vargas Llosa, “Il mito Che Guevara e il futuro della libertà”, Lindau, Torino, 2007, 12.00 euro.