Che società costruiamo se a prevalere è la cultura della morte
17 Gennaio 2011
Dal testamento biologico in giù, la stampa italiana (ma non solo) quando parla di etica, parla solo di morte, ve ne siete accorti? E riporta le illuminate teorie di illustri filosofi su chi e come è meglio lasciar morire. Ma perché certi bioeticisti parlano solo di morte? Perché hanno trasformato la bioetica in un’immensa necrologia? Sembra che il dibattito filosofico riguardi solo come e dove morire o, chi eliminare prima che venga al mondo. E’ un problema extrafilosofico, di competenza sociologica e soprattutto psicologica: perché non si sa parlare che di morte? Di cosa è indice questa mania?
Riflettiamo: il testamento biologico spopola, l’eutanasia è da talk-show; aborto e feticidio sono pane quotidiano sulla stampa. Se si dice bioetica, si dice morte: pro o contro, ma comunque il tema è quello. Nella letteratura inglese, per esempio, dire “ethical decision” è dire “decisioni sul fine-vita”, e basta. Siamo subissati, il peso sulla stampa della morte, aiutati poi dall’ipertrofia dei drammi familiari o delle stragi o delle guerre che passano in TV ogni giorno è enorme. E se parlassimo della naturale necrofilia dei ragazzini che giocano a fare i vampiri non ci stupiremmo. Ma qui si tratta di roba da adulti, di persone serie che discettano su chi “ha una vita indegna”, su quale sia il mezzo migliore per morire, e ci si accanisce nel pretendere testamenti biologici o direttive di fine vita, eutanasie o suicidi assistiti, come se fosse quello il vero problema della vita. Ma è un problema reale? O è una paura personale?
Forse è solo un modo per spostare più in là il problema. “Decido su come morire io che non ho mai in realtà deciso nulla su di me!” sembra dire accondiscendente a questa mentalità l’uomo comune. La vita è un luogo senza speranza e dunque la morte, che è per antonomasia il simbolo della speranza, deve essere “sbianchettata” o “resa asettica”; comunque deve essere rimossa. Deve perdere ai nostri occhi le sue caratteristiche, i cimiteri devono sparire, i vecchi devono morire in ospedale, i film devono essere pieni di sangue come esorcismo, la vita deve finire “quando lo dico io!”. Tanti “devono” perché non sappiamo accettare un semplice dato di fatto: la morte fa parte della vita.
E la rimozione di un evento fisiologico è un indice preoccupante di alterazione di equilibrio affettivo di tutta una società.
Ma chi accetta ancora questa sfida, quella di guardare la morte in faccia, senza piagnistei e paure indotte che forse un giorno un medico folle o un genitore pazzo ti tengano in vita mentre tu sei incosciente e vuoi morire? E la sfida di sentirsi persona degna anche se non si è in grado di parlare, o se si dipende dai servigi di una figlia che ti cambia il pannolone?
E’ l’essere cresciuti da sessantottini o yuppies (categorie interscambiabili e assimilate dal conformismo e dalle speranze infrante) entrambi intenti a giustificare con quel che si sa fare il diritto ad esserci, che ha distrutto le basi della speranza. E che fa credere che basti una leggina su testamenti biologici o eutanasie a trasformare magicamente il mistero tragico della morte in un idillio indolore.