Che successo avrebbe avuto Agorà senza la (finta) censura vaticana?
02 Maggio 2010
È arrivato sugli schermi italiani il film che il Vaticano non voleva far vedere. Piergiorgio Odifreddi e Margherita Hack, firmatari di un manifesto di protesta, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo. Finalmente hanno potuto assistere alla proiezione pubblica di Agorà dello spagnolo Alejandro Amenábar. In cosa il Vaticano si sia opposto a questa pellicola già uscita in mezzo mondo, senza suscitare grandi entusiasmi, non ci è dato di sapere. Anzi, non c’è traccia di benché minime proteste, opposizioni, dichiarazioni, perplessità, commenti ufficiali di sponda vaticana. Eppure se non si trova traccia, qualcosa c’è sicuramente stato. Che morale trarne? Una doppia morale: in primo luogo Agorà è dichiaratamente un film anticattolico; in secondo luogo gli autori, produttori e distributori del film, avendo tra le mani un prodotto fiacco, ha fatto davvero comodo invocare il fumo del rogo Vaticano, guadagnando preziosa pubblicità gratuita.
Agorà è una specie di Codice da Vinci con pretese di film intellettualmente impegnato. Uno sbaglio già in partenza, poiché i film o si fanno per il consumo popolare, o si fanno con delle serie pretese artistiche. Poi, ovviamente, ci sono eccezioni in ogni senso. Ma le eccezioni sono poche, e comunque Agorà non fa parte di questa categoria. Troppo sofisticato, lento, complesso, astruso per soddisfare i gusti di massa; troppo semplice, scontato, ovvio per soddisfare palati più sofisticati. Grazie alla teoria della “censura vaticana” (ripetiamolo: una pura invenzione), il film ha retto bene la prima settimana di programmazione (terzo nella classifica) e almeno nelle grandi città sta reggendo bene anche nella seconda.
Ma, per capirci qualcosa in più, veniamo alla storia narrata in Agorà. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: al film si possono muovere numerosi errori storici. Di ciò ne è convinto anche Umberto Eco, che sull’ultimo numero dell’Espresso ricorda la presenza nel film di «alcuni vistosi anacronismi». Non è sul piano storico, però, che si deve analizzare Agorà. Un film di finzione non può essere interpretato come un saggio. È appunto un’opera di finzione, e ad essa va consentita la più ampia libertà. Ma di cosa parla il film di Alejandro Amenábar? Narra della vita intensa e sfortunata dell’astronoma, matematica e filosofa Ipazia, vissuta a cavallo tra la seconda metà dal IV secolo e la prima del V secolo D.C., entrata in conflitto per le sue idee con la comunità cristiana di Alessandria d’Egitto.
Naturalmente Ipazia è una libera pensatrice, animatrice bonaria e illuminata di un circolo multiculturale, una specie di Galileo in gonnella, o un precursore femminile dell’illuminismo (Voltaire non per caso la celebrò quale vittima innocente del libero pensiero). Gli oppositori cristiani di Ipazia (i parabalani: bruttissimo nome, richiama i talebani) sono una setta rozza, intollerante, sanguinaria e persino incendiaria, poiché appiccano il fuoco alla meravigliosa biblioteca di Alessandria (storicamente non è vero, ma è un dettaglio). A guidarli c’è il vescovo Cirillo di Alessandria. I libri, e chi li scrive, portano in sé qualcosa di pericoloso: meglio erigere pire, e accendere il fuoco sacro e distruttore della purificazione. E se c’è bisogno, come nel caso di Ipazia, bisogna risalire agli stessi autori. Negli anni vissuti con intensità intellettuale e coraggio da Ipazia, il cristianesimo è divenuto la religione dominante, non più osteggiata ma protetta dal potere. Quindi i perseguitati di ieri (i cristiani), si sono trasformati nei persecutori di oggi, impegnati nella lotta senza quartiere, senza scrupoli e pietà, contro gli ultimi testimoni miti, inoffensivi, colti e tolleranti dell’antica religione pagana. Ovviamente nel passaggio epocale il cristianesimo si macchiò di alcune scelleratezze. Ipazia nel film pronuncia la frase: «il vostro Dio non ha dimostrato di essere più giusto o più dignitoso dei suoi predecessori, e per questa ragione credo solo nella filosofia».
Il libero pensiero, l’autonomia umana, lo spirito di dialogo: Ipazia è la perfetta incarnazione di una pensatrice (o intellettuale) postmoderna, in lotta con i dogmatismi della fede religiosa (cristiana). Le Sacre Scritture, se interpretate alla lettera, come accade in Agorà, sono un’arma formidabile per colpire al cuore gli avversari. Se poi serve una prova definitiva sul reale intendimento del film, una didascalia appare subito dopo la morte violenta di Ipazia, a ricordare che il vescovo Cirillo è stato elevato ai più alti onori da parte della Chiesa.
Siamo al solito cliché della Chiesa come luogo di potere occulto, animato da insane passioni e intento a perseguitare con tutte le armi possibili ogni forma di deviazione dall’ortodossia. Agorà si accoda al recente filone del film europeo anti-cattolico, come Lourdes dall’austriaca Jessica Hausner (2009), La mala educación (2004) dello spagnolo Pedro Almodóvar, “Amen” (2002) del greco Costa-Gavras, Magdalene (2002) dello scozzese Peter Mullan, solo per rimanere ai titoli più famosi e dibattuti. Amenabár aveva in mente un progetto (sulla carta) molto ingegnoso. Spostare lontano la storia nel tempo: Ipazia vive nella città di Alessandria, simbolo di tolleranza. Ma nel simbolo della tolleranza, si combatte una guerra spietata. L’eroina intreccia nella sua sfortunata avventura filosofia, religione, politica e amore. Insomma c’è tutto (sulla carta). Poi però il film deve animare la storia. E il regista spagnolo la infiacchisce, intorpidisce, rendendola non digeribile. Funzionando non molto la rappresentazione, allora la carta della polemica resta l’ultimo grimaldello possibile.
Il cristianesimo da sempre ha avuto intenti persecutori. La storia di Ipazia lo dimostra. Colpendo lei e il suo pensiero si colpisce direttamente al cuore quanto ancora resta in vita del paganesimo ellenico. Quindi meglio il politeismo del monoteismo, il multiculturalismo dell’identità cristiana, l’ellenismo e il paganesimo del cristianesimo. Ecco allora il film parlare il linguaggio odierno, volgere la metafora del passato in contestazione contemporanea. Ma le metafore, gli assunti, le polemiche, le invettive, quando si incarnano nella celluloide, hanno pur sempre bisogno di corpi, sostanza, credibilità. Tutto ciò manca ad Agorà. Ritorniamo al punto di partenza. Con l’aiuto della “censura vaticana”, pur se non c’è mai stata, qualche biglietto in più si vende. Così è andata.