Checco Zalone fa il miracolo e dà un calcio alla retorica assistenzialista
16 Gennaio 2011
Nel momento in cui il cinema italiano protesta indignato per i forti tagli, si verifica inspiegabilmente un miracolo. Un comico rischia seriamente di annientare il primato di “Avatar”. A provarci è Checco Zalone, pseudonimo di Pasquale Luca Medici, nato a Bari nel 1977, laureato in giurisprudenza. Per fortuna Checco non ha deciso di cavarsela professionalmente tra codici e tribunali, ma ha scelto la strada del cabaret, della canzone satirica, della televisione e ora del cinema.
Con il suo secondo film, “Che bella giornata”, per la regia di Gennaro Nunziante, Checco è diventato l’uomo del momento. La partenza è stata bruciante: sette milioni di euro in soli due giorni di programmazione. Neppure gli uomini blu usciti dall’universo digitale e tridimensionale di James Cameron erano riusciti a tanto. Checco Zalone dimostra come Davide possa sconfiggere Golia, e il cinema italiano di genere avere la meglio sullo strapotere di quello statunitense. Dopo dieci giorni di programmazione “Che bella giornata” ha superato i 20 milioni di euro, sbaragliando Babbi Natale, «cine-panettoni», film americani belli e brutti. Per Checco il cielo sembra non avere limiti. Se tiene questo ritmo (a Roma di fatto ha occupato la programmazione, con 55 schermi dove si proietta il film) rischia di battere ogni record di incassi.
A prestar fede alle notizie natalizie, il cinema italiano gongola. Tre film che superano i venti milioni di euro. Una manna. Un calcio alla vecchia retorica (ultimamente molto invocata) dell’assistenzialismo, del primato della cultura sul commercio. E già, nella logica comune, il successo commerciale è fonte di volgarità, bassa fattura. Puzza di piccolo-borghese, di sagra paesana, di rimasticatura televisiva. Meglio l’arte vera, affidata alla denuncia, alla partecipazione, al lamento, all’incomunicabile. Spettatori? Il pubblico, per definizione, ha sempre torto. La produzione nazionale, incapace di conquistare spazi di commercializzazione, spettatori, quote di mercato, ricorre alla sovvenzione statale per prolungare l’esistenza traballante di una materia che non esiste più: il cinema d’autore italiano. Per dimostrare che questa fosse una strada sbagliata (era noto a tutti, ma si è preferito far finta di non vedere), ci voleva Checco Zalone. Saltellando in maniera frizzante ed irreverente nei giorni precedenti in tutti gli spazi possibili ed immaginabili della comunicazione, vecchi e nuovi, Checco ha rivendicato con orgoglio il fatto di essere pure lui un autore. Un autore, ha aggiunto, magari del cavolo, ma pur sempre autore. Come spiegare il clamoroso successo di “Che bella giornata”? Certo già il suo esordio “Cado dalle nubi”, lo scorso anno, se l’era cavata piuttosto bene al botteghino.
Ma la vera chiave del successo sta nel personaggio Checco Zalone, sfuggente ad ogni collocazione. Non è Benigni: non ha nessuna specifica identità politica che affonda le radici nelle feste del vecchio Partito Comunista. Non è Troisi: non ha una specifica identità regionale (può sembrare strano, ma è così: un terrone perfettamente integrato a Milano). Se facciamo un raffronto con i contendenti italiani di queste festività, a “Che bella giornata” manca – per fortuna – la volgarità spesso gratuita di “Natale in Sudafrica”, poiché De Sica, Ghini e Panariello sono ingabbiati in ruoli specifici, tagliati più o meno bene. Zalone invece non recita: è se stesso. La differenza che passa tra la realtà e la finzione è impercettibile.
“Che bella giornata” ha invece molte somiglianze con “La banda dei Babbi Natale”. Anzi, Checco Zalone è un frullato di Aldo, Giovanni e Giacomo, mescolanza di barese e meneghino, con in più la capacità, inimitabile, di cantare alla Checco Zalone. La colonna sonora è il suo stile comico: più “Zelig” che Sanremo. La storia di “Che bella giornata” è semplice ma ben strutturata. Checco vorrebbe diventare carabiniere, ma per ben tre volte è respinto. Finisce così a fare l’addetto alla sicurezza del Duomo di Milano. Naturalmente è una specie di ispettore Clouseau (o Borat): non ne combina una giusta neppure per sbaglio. E poi, si sa, Checco è sempre impelagato in questioni di cuore (la canzone di accompagnamento è a dir poco strepitosa, come quelle del film precedente “Angela” e “I uomini sessuali”: «l’amore vero non ha religione/non è cattolico né mormone». Inizia così il corteggiamento di una bella ragazza musulmana, Farah. Checco perde la testa: e la ragazza pensa di aver trovato nell’immensa ingenuità della guardia di sicurezza la migliore occasione per portare a termine con successo la missione. Ma il finale garantisce sorprese.
I puristi della commedia all’italiana storcono il naso. Altro che Comencini o Monicelli! Ci vuole ben altro. E non scomodiamo Pieraccioni o Verdone. I paragoni, giusti o sbagliati, sono una perdita di tempo. Checco Zalone è il meglio che c’è in circolazione. Il caravanserraglio mortuario dei David di Donatello difficilmente gli aprirà le porte. La critica in stile Concita De Gregorio tace, preoccupata dalla valanga di biglietti venduti che la potrebbe investire. Conserva lo schioppo con il colpo in canna per la prossima volta.