Chi è Aleksandr Lukashenko, “l’ultimo dittatore d’Europa”

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Chi è Aleksandr Lukashenko, “l’ultimo dittatore d’Europa”

Chi è Aleksandr Lukashenko, “l’ultimo dittatore d’Europa”

01 Dicembre 2009

Aleksandr Grigorievich Lukashenko in russo, Aljaksandar Ryhoravič Lukašenka in bielorusso; nato il 30 agosto 1954; pelato e con dei baffetti da contadino dell’Italia centrale che lo fanno assomigliare curiosamente al segretario della Uil Luigi Angeletti. “L’ultimo dittatore d’Europa” lo ha definito il Dipartimento di Stato Usa, collocando la Bielorussia tra gli “avamposti della tirannia”. E quando il 19 marzo 2006 si tennero le elezioni presidenziali che lo confermarono per il suo terzo mandato il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan parlò di voto “in un clima di paura”. L’Ocse, per bocca del presidente della sua Assemblea parlamentare Alcee L. Hastings, definì ufficialmente la consultazione “non in linea con i criteri internazionali richiesti per elezioni libere e giuste”. Il ministro degli Esteri austriaco Ursula Plassnik a nome della Presidenza di turno europea confermò il “clima di intimidazione”. Il commissario alle Relazioni estere della stessa Unione europea, Benita Ferrero-Waldner, preannunciò sanzioni, pur rassicurando che non si intendeva “fare del male al popolo bielorusso”.

A parte la sfacciata utilizzazione dell’apparato dello Stato in campagna elettorale, a parte la cacciata degli osservatori danesi e svedesi e l’esclusione di quelli georgiani e baltici, a parte l’impossibilità di avere copie del regolamento dei seggi, a parte l’arresto di vari oppositori “per aver gridato parole d’ordine antipresidenziali”, a parte la vodka e le salsicce offerte dal regime ai seggi a prezzi ultrascontati, c’era il risultato ufficiale dell’82,6% a favore di Lukashenko: evidentemente al di là di ogni possibile risultato fisiologicamente democratico, che ripeteva l’altrettanto inattendibile 84% del 2001, e che parlava chiaramente di manipolazione. “La rivoluzione di cui molta gente ha parlato e che alcuni hanno preparato è fallita e non poteva essere altrimenti” disse il presidente strafottente a proposito dei militanti dell’opposizione scesi in piazza a protestare.

Il bello però è che Lukashenko non nega affatto di avere la mano un po’ pesante. Anzi, se ne vanta pure. “È una mia caratteristica uno stile di governo autoritario, e io l’ho sempre ammesso” disse per esempio nell’agosto del 2003. “Un governante ha bisogno di tenere il proprio Paese sotto controllo, e la cosa più importante è quella di non mandare in rovina la vita della gente”. Si è perfino vantato di aver taroccato i dati del voto, in una conferenza stampa con giornalisti ucraini. “Sì, abbiamo falsificato le ultime elezioni. Ho già parlato di questo con l’Occidente. Il 93,5% ha votato per il presidente Lukashenko. Mi dicono che questa non è una percentuale europea. Così abbiamo comunicato l’86%. Questa è la verità. Se ora dovessimo ricontare i voti, non so proprio cosa potremmo fare con questo dato. Gli europei ci avevano detto prima delle elezioni che se vi fossero state percentuali approssimativamente europee loro ne avrebbero riconosciuto la validità. Così noi abbiamo cercato di avvicinarci a un dato europeo”.

Nel novembre del 1995 era arrivato a fare l’elogio del regime nazista. “La storia della Germania è una copia della storia della Bielorussia. La Germania fu risollevata dalle rovine grazie a una mano ferma, e non tutto quel che fece quella ben nota figura di Hitler è negativo. L’ordine tedesco si è evoluto nel corso di secoli, e sotto Hitler ha raggiunto il suo apogeo”. Dell’Unione europea nel 1998 disse che “non è una democrazia, ma uno zoo”. Della libertà dei mass-media ha chiosato che “si tratta delle armi di distruzione di massa di oggi”. E questo è il suo tipico linguaggio verso l’opposizione: “Gli torceremo il collo come si fa con le anatre”. Ma su tutte, è rimasta famosa soprattutto una delle sue frasi: “Non condurrò mai la mia nazione verso il mondo civile”.

Aleksandr Grigorievich Lukashenko porta il cognome della madre, Katsyaryna Trafimauna Lukashenka, ma esibisce anche il patronimico “figlio di Gregorio”. Un piccolo enigma biografico che il suo sito Internet non chiarisce, dato che si limita a ricordare come “il presidente è vissuto ed è cresciuto senza un padre”. Da ciò qualcuno ha dedotto che questo misterioso Rhyor potesse essere un uomo sposato. Katsyaryna lavorò invece nei primi anni Cinquanta in una fabbrica della città di Orsha, prima di rientrare nel 1956 a fare la contadina al suo villaggio natale di Aleksandria, nella regione di Mogilev. Lukashenko si riferirà successivamente ad Aleksandria come suo paese natale, ma i suoi biografi ufficiali hanno offerto anche una terza versione, dicendolo nato vicino a Kopys, nella stessa regione, Vitsebsk, dove si trova la città di Orsha. Per inquadrare bene sulla cartina: la regione di Vitsebsk sta al Nord della Bielorussia, lungo il confine con la Lituania; Mogilev è invece a est, verso la Russia.

L’origine familiare irregolare sembra confermata dal particolare che da ragazzino i coetanei lo sfottevano con astio, chiamandolo appunto “bastardo”. Ed è pure significativo che Lukashenko non ami soffermarsi su quegli anni. “Della mia infanzia posso dire che sono cresciuto tra animali e piante” ha confessato una volta, ricordando pure di avere talvolta aiutato la madre a mungere le mucche. “Non sono un uomo di famiglia perché ho dedicato la mia vita al mio lavoro” ha pure detto. La moglie Halina Zhaunerovich, un’amica d’infanzia sposata dopo il diploma, gli ha dato i due figli Viktor e Dzmitry, ma è stata poi relegata nel suo villaggio natale a favore di un’amante che gli avrebbe dato un terzo figlio. Ma in proposito c’è un mistero su cui pochi in Bielorussia si arrischiano a indagare.

All’inizio le sue ambizioni sono modeste: diventare da grande un conducente di trattori. Quando la madre gli regala una fisarmonica inizia però a sognare di fare il musicista. Quell’hobby lo coltiva ancora. Nella seconda metà degli anni Novanta quando progetta di entrare al Cremlino come presidente di un’unione russo-bielorussa, il film con cui cerca di farsi pubblicità tra i russi lo mostra in abiti casual con la fisarmonica, a cantare serenate appassionate.

Ma tra il 1971 e il 1975 studia Storia all’Istituto pedagogico di Mogilev, senza peraltro mai sfruttare, in seguito, il suo titolo di insegnante. Invece entra nella nomenklatura del Partito comunista: commissario politico nel reparto di frontiera del Kgb tra 1975 e 1977; istruttore della gioventù comunista Komsomol tra 1977 e 1980; di nuovo commissario politico nel Kgb tra 1980 e 1982; vicedirettore di una fattoria collettiva tra 1982 e 1985; infine direttore, dopo una laurea all’Accademia agraria bielorussa. Molti dei suoi oppositori di oggi insistono che abbia trovato il tempo per fare anche la guardia carceraria, ma Lukashenko nega.

Il piccolo “bastardo” antipatico a tutti riesce così a entrare in contatto diretto con quegli operai e contadini che costituiscono la massa del popolo bielorusso. Si impadronisce a fondo della loro psicologia, e anche della loro lingua corrente, che non è ne il russo letterario né il bielorusso vero e proprio, ma una mescolanza tra i due idiomi con cui nessuno degli avversari in cui si è imbattuto è mai riuscito veramente a trovarsi a suo agio.

Al momento della dissoluzione dell’Urss questo status “mediano” lo colloca in una posizione di terza forza rispetto agli altri due attori in campo. Da una parte c’è infatti il nazionalismo indipendentista, che si richiama a quella cultura bielorussa pura che a Lukashenko evoca invece la vergogna delle sue origini umili e irregolari. “Le persone che parlano la lingua bielorussa non possono fare nient’altro che parlare bielorusso, perché è impossibile esprimere qualcosa di grande in bielorusso. Ci sono solamente due grandi lingue nel mondo – il russo e l’inglese” dirà nel 1994. Dall’altro però c’è pure la nomenklatura urbana russofona, la cui cerchia è assolutamente off-limits per un ambizioso ma insignificante contadinotto come lui.

Infatti lo scatto ulteriore di carriera, con l’elezione a deputato del Soviet bielorusso, deve aspettare il 1990, quando si avvia la riforma gorbacioviana e l’inizio del pluralismo. Il partito da lui fondato si chiama Comunisti per la democrazia e sostiene appunto la sua “terza via”: no all’indipendenza della Bielorussia; mantenimento dell’Urss con una riforma che permetta anche di conservare il sistema economico comunista, pur con libere elezioni. E nel dicembre 1991 è infatti l’unico membro del Soviet a votare contro l’accordo che scioglie l’Unione Sovietica, e che comunque toglie di mezzo la nomenklatura russofona. Il primo dei suoi due nemici.

Ma la nuova Bielorussia indipendente affonda subito nel caos, come d’altronde il resto della ex Unione Sovietica. Eletto nel 1993 presidente della Commissione anticorruzione del parlamento, diventa popolarissimo coi suoi attacchi a 360 gradi. Tra gli oltre 70 personaggi pubblici da lui accusati c’è il presidente stesso del parlamento e capo dello Stato provvisorio Stanislav Shushkevich, che è rimosso dall’incarico, anche se in seguito sarà del tutto scagionato.

Quando nel 1994 entra in vigore la nuova Costituzione, sei candidati si presentano per le presidenziali di luglio. Tra loro anche Shushkevich, che si presenta con una piattaforma di riforme pro-occidente. Favorito è in teoria il primo ministro Vyacheslav Kebich, ma la piattaforma “antimafia” di Lukashenko gli permette di sbaragliare tutti e due: il 45% al primo turno, contro il 15% di Kebich e il 10% di Shushkevich. E al secondo turno arriverà all’80 %.

Nei tre anni che sono trascorsi dall’indipendenza il Pil del Paese è crollato del 50 %, e anche gli standard di vita si sono ridotti in misura analoga. Poiché solo il 2 % dell’economia è stato privatizzato, non può essere colpa del capitalismo; ma il popolino cerca soluzioni semplicistiche. Da presidente Lukashenko continua coi suoi metodi da spiccio moralizzatore, infierendo contro le nomenklature di alto e basso livello. All’inizio si limita a dimissionare ministri e pubblici funzionari in diretta Tv, ma poi sempre più spesso i rimproveri pubblici sono seguiti da arresti immediati, anch’essi in diretta.

Sono metodi che da una parte rinnovano il sistema delle purghe staliniane nell’era dei talk-show. Ma dall’altra fanno anche appello ai sentimenti profondi di una società in cui l’industrializzazione forzata e il regime sovietico non hanno in fondo mai cancellato la concezione patriarcale e assoluta del potere dei tempi zaristi, anzi, forse l’hanno rafforzata. Il bielorusso medio va in estasi, e ribattezza il capo dello Stato Bastka, “Padre”. Lo stesso nomignolo, appunto, un tempo riservato agli zar.

Inoltre i cittadini della piccola Bielorussia, con i suoi 10 milioni scarsi di abitanti, rimpiangono anche i tempi della “Grande Patria”: sovietica, zarista o grande slava che fosse. E il 14 maggio 1995 Lukashenko indice infatti un referendum su quattro domande. Con la prima, l’83,3% dei votanti dice sì al ripristino del russo come lingua ufficiale accanto al bielorusso. Con la seconda l’83,3% approva il “programma del presidente” di integrazione politica ed economica con la Russia. Appena più basso, al 75,1%, è il livello di approvazione della terza domanda, con cui i simboli nazionalisti vengono rimpiazzati da quelli della Bielorussia sovietica. Al posto dello scudo rosso di Pahonia, con il guerriero a cavallo in argento che brandisce una spada e uno scudo con la Croce di Lorena, tornano così le spighe, la stella rossa e il sole sorgente sul mappamondo, anche se non la falce e martello. E al posto del tricolore bianco, rosso e bianco torna pure il vessillo verde e rosso con a sinistra un curioso ricamo in bianco e rosso che a un profano evocherebbe piuttosto l’Asia Centrale: anch’esso senza falce e martello.

Infine la quarta domanda, su una riforma costituzionale che permetta al presidente di assumere i poteri del parlamento in caso di “violazione della Costituzione”: 77,7% di sì. In teoria quest’ultimo è stato un risultato con valore solo consultivo, ma quando nell’estate del 1996 70 dei 199 deputati chiedono la messa in stato di accusa di Lukashenko per violazione della Costituzione lui risponde con l’altro referendum del 24 novembre 1996, in cui il 70,5% dei votanti approva la riforma costituzionale sui nuovi e maggiori poteri del presidente, prolungando inoltre il suo mandato fino al 2001.

Viene dunque convocato un nuovo parlamento con i soli deputati “fedeli”, e poi l’assemblea viene addirittura chiusa per un po’, con la scusa di “lavori di ristrutturazione” dell’edificio. Per protesta si dimettono il primo ministro, due ministri e sette degli undici membri della Corte costituzionale, ma tutti sono subito sostituiti con scherani del presidente. E quando Stati Uniti, Unione europea e Consiglio d’Europa protestano, la risposta, nell’aprile 1998, è l’intimazione a 22 diplomatici di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Grecia, Italia e Giappone di abbandonare le residenze che occupano nell’esclusivo quartiere di Drozdy, dichiarate di proprietà presidenziale, “per lavori urgenti agli impianti idraulici”, invitandoli a trasferirsi nella periferia di Minsk.

Tutti questi Paesi ritirano i rappresentanti, e così fa anche la Russia, che malgrado la linea teoricamente pro-Mosca di Lukashenko all’inizio dell’anno ha sospeso la trattazione del rublo bielorusso, gettando il Paese nel panico. La crisi è poi appianata, ma ormai l’ostilità di Lukashenko verso l’Occidente è scatenata. Non solo caccia una delegazione del Fondo monetario internazionale, ma le sue accuse agli stranieri di “complottare contro la Bielorussia” arrivano al parossismo alle Olimpiadi invernali di Nagano, quando dice che vogliono “defraudare” il Paese delle medaglie che gli spettano.

Nel 1998 la Bielorussia fa una polemica scelta di campo terzomondista aderendo al Movimento dei Paesi non allineati. Nel 1999 allo scoppio della Guerra del Kosovo Lukashenko propone una ”Unione slava” tra Russia, Bielorussia, Ucraina e Iugoslavia. Il 9 settembre 2001 è riconfermato presidente con il 75,65% dei voti. Nel 2003 al momento dell’attacco Usa all’Iraq vari alti esponenti del regime di Saddam ottengono passaporti bielorussi. Il 17 ottobre 2004 un referendum registra il 90,28% di sì a una riforma costituzionale che permette a Lukashenko di candidarsi una terza volta, lo stesso giorno in cui si tengono elezioni parlamentari da cui esce una Camera i cui 110 membri sono tutti sostenitori del governo.

Il 18 gennaio 2005, come ricordato, Condoleeza Rice definisce la Bielorussia di Lukashenko un “avamposto di tirannia”. Del successivo voto presidenziale del 2006, si è già detto. Sempre del 2006 è un rapporto di Amnesty International secondo cui “il governo (bielorusso) ha continuato a restringere la libertà di espressione e di assemblea. Gli attivisti dell’opposizione sono stati arbitrariamente detenuti e riferiscono di essere stati maltrattati dalla polizia. Ad alcuni sono state inflitte sentenze di lunghe reclusioni per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione. Gli attivisti per i diritti civili e le organizzazioni della società civile sono stati soggetti a ulteriori restrizioni e intimidazioni. Nessun progresso è stato fatto nell’indagine su quattro casi di desaparecidos. L’uso della pena di morte è continuato”. In Bielorussia gli oppositori sono strettamente sorvegliati e intimiditi da una polizia segreta ancora definita Kgb. Quasi tutti i mass-media sono sotto controllo, a parte un paio di radio che non arrivano a oltre il 10% dei cittadini.

Non tutti i rapporti internazionali parlano però male di Lukashenko. La Banca mondiale, per esempio, nel 2005 afferma che “la crescita economica in Bielorussia è stata genuina e robusta”, a tassi dell’8-9% con un’inflazione all’8%. E anche che i benefici sono stati divisi in modo equo tra tutta la popolazione. Il tasso di disoccupazione è sotto il 2%, la povertà è diminuita e lo stipendio medio è aumentato più che in altre repubbliche ex sovietiche: in 10 anni, secondo l’Onu, dall’equivalente di 20 dollari al mese a 225 dollari. Nel 2001 la Bielorussia è stata il primo Paese uscito indipendente dalla dissoluzione dell’Urss a raggiungere i livelli di produzione dell’era sovietica. E ciò malgrado le sanzioni da cui è stata colpita in relazione alla politica autoritaria di Lukashenko.

Questo scenario di autoritarismo populista e alti tassi di crescita ricorda in modo impressionante il venezuelano Hugo Chávez di prima del crollo dei prezzi petroliferi, e in effetti Chávez in Bielorussia è venuto in visita ufficiale nel luglio 2006, firmando vari accordi di cooperazione militare e tecnica. “Lukashenko ha un nuovo amico”, ha detto Chávez. “Il presidente Chávez è uomo di profonda conoscenza” ha risposto l’anfitrione. Una seconda visita è stata fatta a un anno di distanza, nel luglio del 2007, ed ha portato alla firma di ben 18 accordi.

Quel che per Chávez è il petrolio per la Bielorussia sono le armi, eredità di un’industria pesante sovietica che nei primi anni della transizione è stata gestita da funzionari corrotti. Quando Lukashenko arriva al potere li colpisce immediatamente con la sua campagna moralizzatrice, individuando però subito negli armamenti il fulcro su cui far partire l’export nazionale. Sono dunque stipulati i primi contratti con il Perú di Fujimori, l’Algeria e il Sudan, e già nel 1997 la Bielorussia si colloca al nono posto nel ranking mondiale degli esportatori.

Ma quando si esauriscono gli stock di epoca sovietica arriva una crisi. Lukashenko, però, sa imporre una riconversione generale, finalizzata alla produzione di equipaggiamenti moderni e tecnologie. E dal 2001 la Bielorussia rientra nella top ten in maniera stabile. Anche aggirando gli embarghi e i divieti dell’Onu per inviare munizioni, fucili, caccia e carri armati in Libano, Iraq e Darfur. C’è addirittura la voce, non controllabile, secondo cui l’arsenale batteriologico di Saddam Hussein non sarebbe stato trovato in Iraq proprio perché prelevato con una serie di voli segreti e trasportato nel complesso militare di Sterie Dorogi, a 150 km da Minsk. È invece certo che la gran parte delle armi vendute da Lukashenko al regime di Saddam sono poi finite ai gruppi armati che insanguinano l’Iraq di oggi.

Vladimir Zametalin, già ideologo del regime e fino al 2002 presidente della commissione bielorusso-irachena per il Commercio e l’Economia, è stato il grande regista di questo traffico, che passava attraverso Libano e Siria. Nel gennaio del 2003, per esempio, due trafficanti d’armi libanesi furono fermati dalla polizia all’aeroporto di Beirut mentre stavano per recarsi con un volo privato a Damasco, da dove poi si sarebbero diretti a Baghdad. Con loro avevano dodici tonnellate di oggetti di produzione militare bielorussa: 240 strumenti tecnologici per la comunicazione wireless, 600 elmetti, pezzi di ricambio per carri armati. Pavel Kozlovsky, ex ministro della Difesa di Minsk, ha definito questo tipo di viaggi “all’ordine del giorno”.

Altri clienti affezionati sono la Costa d’Avorio, la Libia, la Siria, il Sudan, Hezbollah e soprattutto l’Iran, con cui il traffico è cresciuto tra il 1993 e il 2005 dagli 89.000 ai 30 milioni di dollari. Le vendite di Minsk a Teheran riguardano carri armati, camion, aerei da trasporto, e forse anche materiale per la guerra chimica, sebbene ufficialmente si tratti di cooperazione in campo “farmaceutico”. E un rapporto della Casa Bianca nel marzo del 2006 sosteneva anche che il traffico di armi avesse consentito a Lukashenko di mettere da parte un miliardo di dollari su un conto segreto, bypassando il bilancio ufficiale dello Stato. In compenso, per quanto riguarda le tecnologie per il controllo di Internet è Lukashenko a essere un buon cliente: del regime di Pechino. Potrebbe essere lo scambio armi-energia il fulcro anche del nuovo asse col Venezuela, e si parla anche da un lato di finanziamenti di Caracas a Minsk per permetterle di saldare i suoi debiti con Mosca per le forniture di gas; dall’altro di un possibile ruolo della Bielorussia per “triangolare” armi russe al Venezuela senza compromettere ufficialmente Putin.

Dopo aver ripristinato il russo e i simboli sovietici, nel 1998 Lukashenko firma con Mosca un Trattato di unione, che in realtà si rivela poi vuoto di contenuti concreti. Ma quando nel 2000 lo stanco Eltsin viene sostituito alla testa della Russia dal giovane e ambizioso Putin il documento torna a suscitare interesse. La Costituzione russa infatti impedisce al presidente di essere rieletto un terza volta, e quindi dal 2008 Putin dovrebbe lasciare il potere. Ma se venisse realizzata un’Unione russo-bielorussa, o Unione slava che dir si voglia, quello sarebbe un nuovo Stato. E permetterebbe dunque a Putin di perpetuarsi al Cremlino.

Il problema, però, è che Lukashenko sogna quella federazione per diventarne lui il capo. E d’altra parte i due si somigliano troppo per non detestarsi: quasi coetanei, entrambi di temperamento autoritario, entrambi polemici verso le “oligarchie” post-sovietiche, entrambi populisti, entrambi provenienti dal Kgb. “I bielorussi hanno espresso chiaramente la loro volontà e bisogna trattarla con rispetto” dice ancora la diplomazia russa nel marzo 2006 a commento del voto contestato dall’Occidente.

Ma nel novembre del 2006 una prima avvisaglia dell’inopinata tempesta appare nell’intervista con cui Lukashenko dice a sorpresa che a suo parere un’unione con l’Ucraina filoccidentale uscita dalla Rivoluzione arancione avrebbe più possibilità di riuscita della federazione con la Russia. E a dicembre lo scontro viene allo scoperto, quando da Mosca arriva il preavviso che da Capodanno il prezzo per ogni 1000 metri cubi di gas fornito dall’ex madrepatria passerà dai 46,68 ai 100 dollari. E poi la differenza di prezzo rispetto ai clienti europei scenderà al 33 % nel 2008, 20 % nel 2009 e 10 % nel 2010, per arrivare nel 2011 a un’equiparazione totale. “Non siamo Babbo Natale” spiega sprezzante il portavoce della società Gazprom, Sergei Kupriyanov. “Se la Russia vuole abbuffarsi di petroldollari e ha deciso di liberarsi di noi imponendoci condizioni peggiori che alla Germania e agli altri Paesi europei, allora chiederemo alla ricca Russia che ci paghi per i servizi che le prestiamo” risponde un furibondo Lukashenko. “Abbiamo tutto il diritto a reagire di conseguenza e con totale libertà in relazione al transito del petrolio russo e all’affitto per i terreni dove passano gli oleodotti”. “Gli faremo pagare tutto ciò che oggi gli offriamo gratuitamente, dalle basi militari agli oleodotti”.

Un anno prima il governo “arancione” ucraino a un analogo diktat aveva risposto prelevando illegalmente il gas diretto all’Europa in passaggio sul suo territorio. La Bielorussia non solo fa lo stesso ma estende la rappresaglia al petrolio, annunciando il 3 gennaio 2007 nuove tariffe doganali sul greggio russo in transito. Come con l’Ucraina, il braccio di ferro si conclude con la sostanziale vittoria del Cremlino, dopo che per qualche settimana l’Europa ha rischiato di restare al freddo. Ma la delusione lascia il segno. “Né la Russia, né l’Europa sono necessarie alla sopravvivenza della Bielorussia” dice Lukashenko nelle sue più recenti interviste. E nell’estate successiva, come ricordato, viene infatti l’ulteriore avvicinamento a Chávez.

Sennonché, dallo scorso gennaio Lukashenko ha fatto un’ulteriore sterzata. Proprio nel momento in cui da Kim Jong-il a Ahmadinejad altri leader dell’Asse del Male si radicalizzavano, lui invece in cambio di un prestito da 2 miliardi e mezzo di dollari dal Fondo Monetario Internazionale si è messo a privatizzare a tutto spiano. Proprio nel momento in cui altri governi alfieri di quelle privatizzazioni che lui attaccava a causa della crisi si sono messi invece a predicare il ritorno allo Stato. All’asta, l’industria automobilistica nazionale BelAZ, l’operatrice di pipelines Gomeltransneft Druzhba e il 50% delle due principali banche.

Subito dopo ottenuti i soldi dall’Fmi a febbraio Lukashenko è andato a battere cassa pure con la Russia, chiedendole 3 miliardi. Giustamente dal loro punto di vista, a Mosca hanno obiettato: “ma non ve ne avevamo già dati altri 3 miliardi e mezzo nel 2007? e non vi ha pure appena dato 2 miliardi e mezzo il Fondo”. Dunque, hanno risposto di no. Ma Lukashenko ha allora insistitito: “e se ve ne chiediamo solo 2 miliardi?”. Col sottinteso evidente che se il Cremlino avesse rifiutato anche questo “aiutino”, potrebbe allora scordarsi dell’asse informale che per ora ha mantenuto la Bielorussia nella sua orbita. Con Estonia, Lettonia e Lituania che già stanno nella Nato e l’Ucraina e la Georgia che chiedono l’adesione a loro volta, senza contare quel quinto del gas inviato da Gazprom in Europa che transita su territorio bielorusso, l’argomento non era di quelli da potersi ignorare facilmente. Il governo Medvedev tramite l’agenzia Interfax ha però risposto avanzando condizioni draconiane, e tali da potersi configurare come una serie di vere e proprie riannessioni di fatto. E cioè, primo adottare come valuta di riserva il rublo: riannessione monetaria. Secondo, accettare sul territorio bielorusso il dispiegamento di missili russi per controbattere il sistema anti-missile che gli Usa vorrebbero installare in Polonia: riannessione militare. Terzo, riconoscere le repubbliche filo-russe ribelli alla Georgia Ossezia del Sud e Abkhazia: riannessione diplomatica. Quarto, per il futuro ripagare i debiti non rimborsati in asset: riannessione demaniale.  

Sennonché, asso nella manica a sorpresa, Lukashenko a maggio si è recato al vertice Ue sulla cosiddetta Eastern Partnership, alla ricerca di un’integrazione doganale proprio con quell’Unione Europa da lui in passato tanto vituperata. E, per preparare l’incontro, ha pure liberato un po’ di prigionieri politici. Lo scenario in cui c’è stata ora la visita di Berlusconi.