Chi si candida a guidare il blocco sociale delle libertà?
26 Aprile 2020
Anche la politica, o quel che ne resta, è andata in lockdown. E ora si prepara a riaprire. Tempi e modalità della ripresa non saranno indifferenti nella determinazione degli equilibri. Perché giocando sui giorni, le settimane e i mesi si potrà incidere sulla tenuta della maggioranza e sulla durata stessa della legislatura.
Non voglio dire che lo si stia facendo, ma è bene ricordare che non si può piegare una tragedia sanitaria a una convenienza politica: anche il solo sospetto sarebbe insopportabile. Per questo, la prima cosa da fare è chiedere il ritorno a una vita democratica normale. Basta dibattiti parlamentari condizionati dagli spazi, basta programmi istituzionali ridotti, fare ammenda in fretta di tutte le forzature che sono state perpetrate durante l’emergenza. Le istituzioni sono come le fortezze – diceva Popper -, resistono se è buona la guarnigione. Oggi però per prima cosa bisogna restaurare la fortezza, che in questi due mesi ha subìto più di qualche attentato alla sua stabilità.
Allo stesso tempo, bisogna pensare a dotare le guarnigioni di armi adeguate: le migliori possibili in un momento nel quale le classi dirigenti sono tutte crollate. La prima di queste armi è la consapevolezza politico-culturale. La pandemia ha annientato la religione civile dello scientismo: l’utopia di una liberazione assoluta dell’individuo grazie alla scienza e alla tecnica; l’idea che, in questa prospettiva, sia possibile l’instaurazione di diritti individuali che si auto-alimentano, dai quali poi partire per nuove conquiste che consentano di auto-determinare ogni momento della propria esistenza, dalla culla alla bara. Insomma, per dirla con Augusto Del Noce, il coronavirus ha annientato l’ideologia del partito radicale di massa.
Si può credere o meno in Dio, ma quanto è avvenuto ha reso chiaro anche ai più restii che la scienza non può tutto e che in un attimo la nostra esistenza può cambiare. E la considerazione della fallibilità dell’uomo spinge naturalmente ad avere più attenzione verso le fragilità: quelle età e quegli stati della vita che, non casualmente, sono più tutelati laddove le tradizioni non vengono considerate ciarpame del quale liberarsi e la persona non è alienata da una comunità che la completi e la tuteli nei momenti difficili.
La rivalutazione di questo nesso tra persona e comunità non è solo il portato di un costume e di una pratica sociale. Può e deve essere incentivata dalle scelte pubbliche. Lo stesso utilizzo della tecnologia va orientato per favorire l’inserimento della persona in reti di relazioni ricche d’affettività anziché determinare il suo isolamento.
Se la guarnigione riuscirà a comprendere che la libertà ha dei limiti “umani” che non devono essere oltrepassati, riuscirà ancor meglio a presidiare quei territori dove, invece, la libertà deve dominare. E mai come in questo caso è facile spiegare perché tra libertà civile e libertà economica esiste un nesso inscindibile.
La pandemia ha sollecitato la tentazione di scaricare le conseguenze di quanto accaduto sulle spalle del “profitto”. E, lungo questa deriva, nell’immaginario collettivo l’imprenditore non è più colui che rischia in proprio, dà lavoro e crea ricchezza ma torna ad essere, secondo i peggiori cliché vetero-marxisti, colui che si arricchisce sulla pelle dei poveri cristi. Come interpretare altrimenti, se non alla base di tale pregiudizio, la norma in base alla quale la responsabilità dell’eventuale contagio dei lavoratori finisca a carico del datore del lavoro, nonostante sia di assoluta evidenza che durante una pandemia ci si può ammalare in qualsiasi modo e a qualsiasi ora?
Bisognerebbe andare nella direzione esattamente opposta: puntare sulla cancellazione di lacci e lacciuoli che nella “Repubblica del Tar” hanno fin qui limitato la possibilità d’intraprendere e impedito a soggetti pubblici di mettere in circolo quantità enormi di denaro la cui movimentazione, in questa fase storica, potrebbe essere uno dei pochi modi per dare lavoro a tantissime persone sennò disperate. Urge varare un’operazione “burocrazia zero”. Ed è meglio esagerare perché, presto, ci sarà chi esagererà in senso inverso.
Infine, bisogna prestare un’attenzione speciale a quell’economia di prossimità che rischia di finire sotto le macerie: bar, ristoranti, alberghi, strutture turistiche, imprese sportive, attività culturali e di spettacolo. Gli imprenditori che operano in questi settori particolarmente esposti non possono essere lasciati soli, e non retoricamente. Non si possono scaricare su di loro – senza aiuti, sostegni e pratica del buon senso – i costi dell’emergenza sanitaria.
La crisi, insomma, sta naturalmente selezionando un “blocco sociale della libertà” che aspetta che qualcuno gli dia forza politica. Se non avverrà, il distanziamento sociale si trasformerà in alienazione. E qualcuno proverà a creare “l’individuo nuovo”: pessimista, rancoroso, anaffettivo, che disdegna le reti di relazioni e crede che lo Stato gli debba comunque garantire un reddito di cittadinanza (soprattutto se permette ad altri di arricchirsi).
Il modello al quale ispirarsi è a portata di mano: quella Cina che nell’immaginario collettivo ha preso il posto che l’America ha avuto nel dopoguerra. Mentre di quel periodo storico si ricordano le navi cariche di grano dell’ERP (European Recovery Program, al secolo Piano Marshall), di questa pandemia ricorderemo i medici cinesi giunti in soccorso assieme agli aiuti in mascherine e respiratori. Ci sarebbe tanto da obiettare su questa rappresentazione ma basti ricordare che gli americani la guerra non l’avevano certo provocata. I cinesi e il loro modello, invece, di questa pandemia sono i primi responsabili.
Se questa elementare constatazione fin qui non è bastata per orientare la pubblica opinione, vuol dire che il rischio è serio. Quel che ha detto ingenuamente un redivivo Di Battista a proposito della Cina e del suo modello sociale, tra qualche mese, quando il debito tracimerà e i disoccupati si conteranno a milioni, potrà diventare un programma politico attraente e persino vincente. A meno che non ci siano guarnigioni in grado di contrapporre un programma di segno diverso ma altrettanto forte e radicale: una vera e propria rivoluzione conservatrice e liberale.