Chiesa, Governo, Centrodestra: l’impietoso “ten years challenge” del caso Englaro
09 Febbraio 2019
Esattamente dieci anni fa, con la morte di Eluana Englaro faceva irruzione nel nostro Paese una sfida di civiltà destinata ad attraversare il nuovo millennio: la sfida del diritto naturale contro il sogno di pianificazione dell’esistenza (propria e addirittura altrui). Il mistero dell’uomo con le sue fragilità e le sue contraddizioni contro il perfettismo di chi, sentendosi forte e dunque libero, ritiene che si possa essere liberi solo se si è forti. La libertà come quotidiana scoperta e come responsabilità contro la libertà come diritto esigibile, che prevede come corollario il dovere altrui di dare la morte a un essere umano.
Una sfida, insomma, che al fondo chiama in causa l’idea stessa di libertà, le sue implicazioni, la sua relazione con la libertà dell’altro, i suoi limiti.
Dieci anni dopo la questione non ha perso attualità. Tutt’altro: da un lato il progresso tecnologico, dall’altro l’avanzamento di una “cultura dei diritti” che pretende di fare a meno dell’ancoraggio al dato naturale, rende la cosiddetta sfida antropologica più stringente che mai. E se non la si può combattere con le armi dell’odio, allo stesso modo impone di mettere al bando l’ipocrisia. Quell’ipocrisia per cui si può parlare di interruzione di alimentazione e idratazione ma non la si può chiamare morte per fame e per sete; si può parlare di “somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte” ma non la si può chiamare eutanasia; si può parlare di “genitorialità omosessuale” ma non la si può chiamare utero in affitto. Io credo che se iniziassimo tutti, a prescindere dalle opinioni di ciascuno, a chiamare le cose con il loro nome, avremmo fatto un passo avanti nella consapevolezza dei fenomeni. E’ il motivo per il quale la sera del 9 febbraio di dieci anni fa, quando nell’aula del Senato irruppe la notizia della morte di Eluana, presi d’istinto il microfono e pronunciai le parole che spesso vengono ricordate.
Con la stessa chiarezza, da antico liberale io non pretendo che tutti la pensino come me, ma pretendo – questo sì – che in tema di eutanasia non si parli di una battaglia tra oscurantismo e libertà. La battaglia è tra una libertà che non si chiude al futuro per non rinnegare se stessa, e la presunzione fatale di tutto sapere, tutto conoscere e tutto potere, giungendo a realizzare sul corpo umano quei piani quinquennali già sperimentati, e drammaticamente falliti, in campo economico.
Si tratta di una sfida difficilissima, soprattutto per chi si trova da questa parte della barricata. Il rapido avanzare del progresso tecnologico e una concezione assolutistica della scienza rendono infatti assai impopolare un’idea non assolutistica della libertà. Nondimeno, però, è la sfida più importante che noi uomini del terzo millennio abbiamo di fronte.
Una sfida da praticare con atti concreti, anche a costo degli equilibri contingenti, del plauso popolare, delle posizioni di potere; non soltanto da declamare attraverso asserzioni di principio prive di conseguenze pratiche. In caso contrario avrà pienamente ragione Marco Cappato, e dieci anni dopo la morte di Eluana il “ten years challenge” della sfida antropologica sarà destinato a restituirci un’immagine impietosa. Allora c’erano una Chiesa, un governo e un centrodestra pronti, ognuno nella propria reciproca e assoluta indipendenza, a mettere in gioco qualsiasi convenienza politica e qualsiasi opportunità istituzionale nel tentativo di salvare una vita e una concezione dell’uomo. Oggi chissà.