Ci dispiace per la sinistra, ma Veltroni non è Blair

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Ci dispiace per la sinistra, ma Veltroni non è Blair

27 Giugno 2007

Diciamo la verità: Veltroni in fondo ci suscita un mix di simpatia e di compassione. Non certo perché subiamo il suo (presunto) carisma, anzi! La sua miscela di togliattismo, terzomondismo, buonismo e nuovismo ci risulta francamente insopportabile. La sua capacità di coniugare Che Guevara e Bob Kennedy, i festival del cinema d’autore e le figurine Panini, il Papa ed il Gay Pride, rivela se non altro una paurosa mancanza di idee e di valori.

Ma tant’è! Occorre rassegnarsi: nell’epoca della deideologizzazione e delle passioni politiche fredde le contaminazioni valoriali, le confusioni lessicali, le ambiguità programmatiche sono una componente ineliminabile per un leader che voglia essere tale. Basti pensare al caro Sarkozy che, appena salutato come il Presidente che avrebbe dovuto svecchiare la destra francese, s’è immediatamente impegnato in una strenua battaglia, in pieno stile colbertista, per cancellare dal Trattato costituzionale europeo ogni riferimento alla libertà di mercato!

Del resto, questo processo di decadimento e di corruzione delle culture politiche, oltre che inevitabile storicamente, può essere, da un certo punto di vista, anche salutare, visti i disastri che nel novecento hanno combinato le visioni politiche pure e cristalline. Una certa dose di pragmatismo, al limite del trasformismo e dell’opportunismo, rappresenta il miglior antidoto verso i rischi di dittatura della (pseudo) ragione che ha imperversato nell’Europa del XX secolo. Naturalmente, come tutti gli antidoti, deve essere preso a piccole dosi, perché rischia altrimenti di ammazzare il paziente.

Quale è allora la fonte del nostro sentimento? Il fatto è che a noi comunque piacerebbe un leader della sinistra italiana in grado di traghettare definitivamente le forze italiche del Progresso al di là delle secche dell’ideologia verso i modelli della moderna sinistra europea ed americana. Siamo però convinti che il Walter nazionale non ce la possa fare. E non per i suoi limiti (o meglio non solo e non tanto per quelli). Il fatto è che alla strategia veltroniana manca in primo luogo un contesto storico politico favorevole. Manca in particolare qualcuno che prima di lui abbia fatto il “lavoro sporco” di rimettere in piedi il Paese, fiaccato da decenni di mancanza di cultura e di capacità di governo.

Per convincersene basta pensare al più clamoroso caso di rivoluzione democratica della sinistra cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni: la nascita del New Labour di Tony Blair. Ebbene – è questo il nodo – il nuovo corso blairiano sarebbe stato immaginabile se una signora di ferro non avesse, nei dieci anni precedenti,  rimesso in piedi il sistema inglese, ingaggiando una battaglia durissima all’interno del suo partito, messo in ginocchio le potenti Unions%3C/em> ed i gruppi di potere asserragliati a difesa delle proprie rendite che stavano mandando affondo il Regno Unito negli anni settanta? Lo stesso nuovo corso del socialismo francese mitterandiano si è potuto sviluppare solo dopo e grazie alla rivoluzione gollista. Per non parlare del clintonismo, frutto postumo del reaganismo.

Se questo è vero ci interroghiamo angosciati: come potrà il nostro eroe della democrazia progressista modificare i tratti genetici della sinistra italiana con Prodi al Governo che non riesce nemmeno a resistere ai sindacati che gli impongono una controriforma sulle pensioni, settore nel quale abbiamo la legislazione più arretrata d’Europa? Come potrà farlo se il tentativo di rivoluzione conservatrice abbozzato da Berlusconi negli ultimi dieci anni si è fermato (volendo essere generosi) a metà strada?

La verità è che i processi rivoluzionari democratici, nascono necessariamente da uno stato di necessità. Quando un partito, sovrastato dalla forza politica e morale dell’avversario, è ridotto in condizioni di minorità è costretto a rinnovarsi pena la sua stessa sopravvivenza. In circostanze del genere, la capacità di interdizione delle frange estreme conservatrici viene sostanzialmente annullata: non ci sono Turigliatto, Epifani, Pecoraro Scanio o Mussi che tengano. Il cambiamento è l’unica strategia praticabile. Immaginare un processo del genere mentre la sinistra è mollemente al governo, vittima di tutti i poteri di veto, con un Presidente del Consiglio che – per sopravvivere – non trova di meglio da fare che cedere a tutte le pressioni della propria maggioranza, dimettendo ogni capacità di guida strategica dell’azione di Governo, è una pia illusione. Né ci pare sufficiente cercare di preservare la propria autonomia politica mantenendo la carica di Sindaco di Roma, con tutto quello che ciò comporta in termini di politica dell’effimero e dell’immagine. Una scelta che, oltretutto, sarebbe disastrosa per i cittadini di Roma.