“Ci saremmo dovuti dare da tempo l’obbligo del pareggio di bilancio”

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“Ci saremmo dovuti dare da tempo l’obbligo del pareggio di bilancio”

30 Novembre 2011

Ripubblichiamo l’intervento alla Camera dei Deputati dell’on. Giuseppe Calderisi pronunziato lo scorso 28 Novembre durante la discussione in aula sulle proposte di legge costituzionale per l’introduzione nella Carta fondamentale italiana dell’obbligo di pareggio di bilancio.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro per i rapporti con il Parlamento, professor Giarda, prima di esaminare il testo al nostro esame, con le modifiche ed i suggerimenti – chiamiamoli ancora così – che il Governo nella sua persona ha ieri formulato in una riunione ancora informale nelle Commissioni bilancio e affari costituzionali, perché ci sono a nostro avviso tre o quattro questioni di grande rilevanza che questo testo, con le sue proposte ed i suoi suggerimenti pone, e che vanno esaminati con attenzione perché riteniamo che sia fondamentale assicurare a questo provvedimento, che riveste grande importanza, un adeguato rigore, non vogliamo che questa modifica dell’articolo 81 possa prestarsi, come il vigente articolo 81, a nuove elusioni e aggiramenti, sarebbe una cosa inaccettabile, quindi bisogna fare molta attenzione. Ma prima di venire all’esame di queste questioni, molto concrete, del testo credo innanzitutto sia necessario fare qualche premessa di carattere generale. L’importanza del tema, questa riforma costituzionale che prevede l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione lo richiede.

Questo principio, a nostro avviso, va introdotto nella Costituzione non solo perché c’è una grave crisi finanziaria di inaudita violenza che ha investito l’occidente e perché l’Europa ci chiede regole di bilancio in grado di garantire la sostenibilità del nostro debito pubblico, ma perché si tratta di una regola condivisibile, opportuna e necessaria in sé, che avremmo dovuto darci da molto tempo. Dobbiamo introdurlo nella Carta innanzitutto per una ragione di equità tra le generazioni, quello che stiamo vivendo ne costituisce una chiara dimostrazione: le generazioni più anziane della società hanno goduto di benefici sotto forma di una maggiore spesa il cui prezzo viene pagato dalle nuove generazioni. Si tratta di un principio di ordine etico – morale che dovrebbe e potrebbe essere addirittura inserito tra i principi fondamentali – come articolo 11-bis, ad esempio – della nostra Carta costituzionale, ma non ne voglio fare assolutamente una questione ideologica, va bene anche nell’articolo 81, se ben formulato.

Dobbiamo introdurre questo principio nella consapevolezza che la discussione in ordine alla costituzionalizzazione del pareggio del bilancio non può essere ridotta a questione di natura meramente contabile e finanziaria, il tema coinvolge la concezione stessa della democrazia, investe uno dei pilastri dell’intero edificio istituzionale, attraverso la Costituzione fiscale infatti vengono fissate le regole fondamentali entro le quali si svilupperanno le successive attività economiche e finanziarie degli apparati pubblici, in altre parole con la Costituzione fiscale si definiscono compiutamente le relazioni fra libertà e autorità, fra diritti individuali, diritti sociali e doveri fiscali che rappresentano il cuore dei sistemi politici. Sotto questo punto di vista siamo di fronte di fatto, che lo si voglia o no, ad una ridefinizione della nostra stessa forma di Stato. In particolare si tratta di definire nuove regole tra gli attori istituzionali e in particolare quelle tra Governo e Parlamento, del resto la stessa origine del parlamentarismo è intimamente legata a forme di controllo sull’esercizio dei poteri di spesa e delle connesse potestà impositive da parte del sovrano, anche se invero nel nostro Paese la questione si è posta sostanzialmente e singolarmente in modo invertito: è stato il Governo ad esercitare per lungo tempo un ruolo di controllo e di gendarme rispetto alle tendenze del Parlamento ad adottare decisioni di spesa.

Il radicale cambiamento della considerazione collettiva dei disavanzi di bilancio che si è registrato a partire dalla seconda metà del secolo scorso, in particolare con la diffusione delle teorie economiche di Keynes, ha fatto smarrire qualunque valutazione di ordine anche vagamente morale che era la base delle teorie economiche classiche. Oggi discutiamo dell’opportunità di introdurre dei vincoli costituzionali al saldo di bilancio. Vincoli giuridici, inimmaginabili nei secoli scorsi, rappresentano oggi un necessario surrogato dei vincoli morali venuti meno. Non sono un economista e non voglio cimentarmi su questo terreno, ma a me sembra che l’obiezione fondamentale che incontra la politica del deficit spending non risieda né nelle pur numerose e piuttosto fondate perplessità avanzate dalla teoria economica, né nella valenza etica e morale del principio del pareggio di bilancio. I problemi maggiori emergono quando si prova a collocare le teorie keynesiane all’interno del concreto funzionamento dei sistemi politici democratici contemporanei, un funzionamento condizionato fortemente, come dimostrano anche le verifiche empiriche, dai cicli politici di bilancio connessi allo svolgimento delle elezioni, cioè alle politiche di incremento della spesa pubblica o del deficit, o di diminuzione delle tasse, attuate dai Governi in vista delle elezioni, con il chiaro intento di usare tale strategia al fine di ottenere la rielezione.

Insomma, lo short-termism che caratterizza le moderne democrazie di massa riduce drammaticamente gli spazi per un uso coerente e ragionevole della politica di deficit spending. Non solo, il passaggio dai principi della finanza neutrale, bilancio originariamente in pareggio, a quelli della finanza funzionale, utilizzo del saldo di bilancio in funzione anticiclica, ha finito per tradire del tutto le stesse premesse dalle quali partivano le teorie keynesiane. Keynes non ha mai teorizzato che il bilancio pubblico potesse essere permanentemente in deficit, come è accaduto in Italia per decenni, Keynes ha piuttosto spostato l’orizzonte dell’equilibrio di bilancio dal singolo esercizio al ciclo economico: per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, che secondo Keynes non è garantito dalla spontanea dinamica del mercato, occorre stabilizzare l’alternarsi dei cicli economici, compensando le fasi di deficit della domanda privata aggregata con un surplus di domanda pubblica finanziata in deficit e, viceversa, compensando le fasi di eccesso di domanda privata aggregata con avanzi di bilancio. Ma questo schema si è rivelato, in concreto, del tutto impraticabile.

Non vi è dubbio, infatti, che se per un decisore politico chiudere un bilancio in disavanzo è decisamente conveniente, del tutto controindicato è chiudere un bilancio in avanzo. Registrare un avanzo di bilancio, infatti, altro non vuole dire che chiedere ai contribuenti più risorse di quante possano essere destinate all’erogazione dei servizi ai cittadini. Ma la scelta di realizzare risparmi necessari per ripianare i disavanzi passati, utili per mettere da parte risorse da utilizzarsi a fronte di difficoltà future, è scelta normale per il buon padre di famiglia, è strategia che può essere adottata da un monarca illuminato, consapevole che toccherà a lui medesimo ripianare i disavanzi creati, ma diventa del tutto illusoria se affidata alla lungimiranza dei governanti eletti democraticamente e, quindi, sottoposti ad una verifica a scadenza ravvicinata del consenso elettorale. In questa prospettiva il keynesismo implica una visione elitaria e tecnocratica del funzionamento della politica, una visione lontana anni luce dalla realtà delle contemporanee democrazie di massa.

L’esperienza italiana, ma non solo italiana, degli ultimi decenni ha registrato quello che potremmo definire il paradosso del keynesismo: l’accettazione della prospettiva discrezionale nella politica di bilancio ha finito per annullare gli spazi per qualunque politica di bilancio. In effetti, scorrendo la serie storica del deficit di bilancio, il Ministro Giarda la conosce molto bene, negli ultimi decenni è arduo rintracciare un qualunque legame tra andamento del deficit e ciclo economico. Spesso il saldo di bilancio ha svolto non una funzione anticiclica, ma, calpestando l’insegnamento keynesiano, il suo esatto opposto, una funzione pro ciclica. Basti, del resto, pensare al fatto che i decenni nei quali più profondi sono stati i disavanzi di bilancio e nei quali si è, quindi, accumulato un debito sempre più ingovernabile, sono stati i decenni di espansione dell’economia. Al contrario oggi l’Italia, e non solo l’Italia, è paradossalmente impegnata in rigorose politiche di riduzione del disavanzo, fino all’obiettivo storico del suo azzeramento, proprio in una fase economica recessiva. In questo senso, l’introduzione di un vincolo all’equilibrio di bilancio, semmai accompagnata da una clausola di flessibilità per i bad times, non rappresenta necessariamente l’abbandono completo dell’approccio di Keynes, ma potrebbe piuttosto essere interpretato come l’unico modo per cercare di proteggere Keynes dalla cattiva politica keynesiana. È indubbio che nelle intenzioni dei nostri padri costituenti l’articolo 81 avrebbe dovuto assicurare la naturale tendenza al pareggio di bilancio.

Così, del resto, si espressero testualmente sia Ezio Vanoni, firmatario dell’emendamento che sarebbe poi diventato norma costituzionale, sia Luigi Einaudi. Peraltro, se assai rigorose furono le intenzioni dei costituenti, affatto diversi furono gli esiti dell’applicazione della previsione costituzionale. Naturalmente, una puntuale ricostruzione delle cause che condussero al sostanziale fallimento dell’articolo 81 della Costituzione è opera complessa, che non può in ogni caso prescindere da una valutazione dell’evoluzione della generale cultura politica ed economica del dopoguerra. L’affermazione dei moderni sistemi democratici di massa, l’ampliamento della sfera di intervento dello Stato, la costruzione dei moderni sistemi di welfare, il susseguirsi di periodi di forte crescita economica sostenuti da una significativa dinamica demografica, furono tutti fattori che determinarono una profonda modifica nella stessa percezione dei problemi della finanza pubblica. La mia esperienza di deputato, iniziata nel lontano 1982 (ero allora deputato radicale, fortemente contrario a qualsiasi violazione dell’articolo 81 della Costituzione, proprio nella Commissione Bilancio allora presieduta dall’onorevole Giuseppe La Loggia che aveva come funzionaria della Commissione l’onorevole Linda Lanzillotta, che mi dispiace di non vedere qui), è stata un’esperienza che purtroppo ha toccato con mano i tanti modi con i quali sono stati aggirati i vincoli dell’articolo 81 della Costituzione, vincoli di copertura previsti dall’articolo 81, ma forzati in tanti modi, nonostante le modifiche delle leggi n. 468 del 1978, n. 362 del 1988, e successive.

Abbiamo purtroppo visto come siamo passati attraverso meccanismi per cui si coprivano le spese in modo assolutamente inadeguato, solo per il primo anno; l’indebitamento considerato come una forma legittima di copertura, legittimità sancita da una sentenza della Corte costituzionale, la n. 1 del 1966; sentenze della Corte peraltro che, in applicazione del principio uguaglianza, hanno esteso benefici ad una platea enorme di cittadini senza nessuna copertura finanziaria, e questo dovrebbe essere un problema che dovrebbe ancora preoccuparci, anche se la Corte ha un po’ cambiato giurisprudenza e tendenze; dopo la legge n. 468, l’articolo 1 che fissava i saldi votato alla fine come risultante delle decisioni di spesa adottate in precedenza; finanziarie con deficit a doppia cifra negli anni Ottanta, anche superiori al 20 per cento del PIL, con le relazioni di minoranza dell’allora Partito Comunista Italiano che dicevano che queste finanziarie erano recessive, cioè che si spendeva poco – Ministro Giarda – finanziarie con deficit di oltre il 20 per cento – lo ripeto – considerate recessive; finanziarie modificate con i meccanismi degli emendamenti vol au vent di Cirino Pomicino, ma questa è già altra questione; finanziarie per le quali ogni navetta parlamentare costava dai mille ai duemila miliardi di lire, con emendamenti votati a scrutinio segreto (e che battaglia ci volle per eliminare il voto segreto sulle decisioni di spesa).

Quindi, abbiamo avuto una sistematica elusione e forzatura dell’articolo 81 da parte dell’intero sistema politico, ma in particolare da parte delle due maggiori culture politiche del Paese, quella democristiana postdegasperiana e quella comunista, con una compartecipazione in gran parte subalterna di quella laico-socialista, che ad un certo punto è stata almeno capace di alcune rotture di quelle egemonie (ricordo il decreto di San Valentino, e appunto la battaglia per abolire il voto segreto, battaglie per le quali peraltro ha pagato poi prezzi politici molto salati e molto elevati). Fatta questa ricostruzione, fatte queste premesse, veniamo alle questioni che – dicevo all’inizio del mio intervento – pone il testo al nostro esame. Dobbiamo introdurre questo principio del pareggio di bilancio, dobbiamo riformare l’articolo 81, dobbiamo farlo bene, in modo rigoroso, evitando, dicevo, che le nuove regole possano nuovamente essere soggette ad aggiramenti ed elusioni. Però dobbiamo fare molta attenzione perché da questo punto di vista il testo al nostro esame, a maggior ragione – non so se mi sbaglio, il Ministro mi dirà – con le modifiche che ha suggerito il Ministro Giarda nella riunione informale del Comitato dei diciotto delle Commissioni I e V, non ci appare sufficientemente adeguato e rigoroso, perché i vincoli da esso previsti si prestano con una relativa facilità ad essere elusi ed aggirati.

Ci sono almeno tre questioni (anche una quarta, ma innanzitutto vediamo le prime tre). Esaminiamo la prima. Il nuovo articolo 81 fa riferimento al cosiddetto saldo strutturale, un concetto tecnicamente molto complesso, che richiede calcoli e valutazioni difficili, inevitabilmente soggette ad alea e discrezionalità, anche a consuntivo, figuriamoci in via preventiva, oltre al fatto – come ho già detto – che è molto astratta ed illusoria l’idea che un Governo nelle fasi favorevoli del ciclo metta da parte l’avanzo per compensarlo nelle future fasi avverse. Basti ricordare i famosi «tesoretti» del Governo Prodi. Ma credo che qualunque Governo avrebbe difficoltà in questo senso. Ma anche a prescindere da questo, con le modifiche suggerite dal Governo, verrebbe incluso nel computo di tale saldo strutturale, cioè nella compensazione di disavanzi e avanzi delle fasi avverse e favorevoli del ciclo economico, anche il caso di grave recessione economica, senza che questo richieda un’esplicita autorizzazione da parte delle Camere. Insomma, ci si affida ad un’impostazione tutta tecnocratica, che potrebbe comportare un ricorso all’indebitamento anche consistente. Non sappiamo neppure di quale ammontare; potrebbe essere dello 0,5 per cento del PIL? Ma, forse, dell’1, del 2, del 3 o del 4 per cento. Una grave recessione economica, infatti, potrebbe avere questa natura. Tutto ciò senza una decisione consapevole delle Camere, senza un’esplicita autorizzazione delle Camere, senza una precisa e chiara assunzione di responsabilità politica di Governo e Parlamento. Nel testo che ha suggerito il Governo, l’autorizzazione viene addirittura cancellata.

Questo per noi è assolutamente inaccettabile. Se proprio si deve fare riferimento al cosiddetto saldo strutturale – e qui veniamo alla proposta -, allora possiamo anche fare questo riferimento, ma almeno mettiamo un tetto, un limite; non so, lo 0,5 per cento o ci dica il Governo quale può essere tale tetto. Poniamo un limite oltre il quale c’è comunque bisogno di un’esplicita autorizzazione delle Camere con un piano di rientro, con una precisa assunzione di responsabilità politica. Infatti, credo che solo basandoci sul principio di responsabilità politica, il grande assente della storia repubblicana, noi possiamo inserire nella Costituzione dei vincoli che abbiano una qualche speranza di essere rispettati e non elusi. Il problema è, quindi, del principio di responsabilità politica, ossia come ancoriamo il principio del pareggio di bilancio al principio di responsabilità politica. E questo si pone anche con riferimento ad altre due questioni e passo alla seconda. Come ha detto anche il collega Bressa, occorre rilanciare il ruolo del Parlamento nel settore del controllo sulla finanza pubblica perché, nonostante i tentativi succedutisi negli ultimi anni – basti pensare da ultimo alla riclassificazione del bilancio per missioni e per programmi -, il controllo parlamentare sulla finanza pubblica rimane marginale, rimane la Cenerentola del nostro sistema istituzionale.

Le Commissioni bilancio, le Commissioni di settore delle due Camere, dedicano, infatti, pochissimo tempo e nessuna energia all’attività di controllo sulla quantità e sulla qualità della spesa. Ma ciò rappresenta il venir meno di una delle funzioni fondamentali della rappresentanza parlamentare e questa assenza paradossalmente finisce per indebolire lo stesso Governo, che potrebbe controllare assai meglio l’attività degli apparati amministrativi sotto la sua direzione se avesse un efficace stimolo parlamentare. Per queste ragioni, riteniamo che sia opportuno che nella stessa Costituzione si renda esplicito il principio del controllo parlamentare sulla finanza pubblica. Al testo che ha proposto il Ministro Giarda, che demanda ai Regolamenti parlamentari la costituzione di un organismo indipendente, si deve, a mio avviso, premettere l’istituzione di una Commissione parlamentare bicamerale a composizione paritaria tra maggioranza ed opposizione. Come PdL, lo abbiamo chiesto anche nella proposta di riforma del Regolamento, che, purtroppo, non è mai stata discussa, di controllo sulla finanza pubblica, sia con riferimento all’equilibrio tra entrate e spese sia con riferimento alla qualità e all’efficacia della spesa, con l’ausilio di un organismo tecnico comune, munito dei requisiti di indipendenza e imparzialità. Ben venga, quindi, l’organismo tecnico imparziale ed indipendente…

Vengo velocemente alla terza questione, che è quella di fissare in Costituzione un limite al livello massimo delle spese. Sono contrario ad introdurre in Costituzione, come hanno proposto altre iniziative parlamentari, un tetto rigido, tipo il 45 per cento, alla spesa pubblica. Non si può fare. Credo che però bisogna, in sede di decisioni di programmazione annuale di finanza pubblica, demandare annualmente alle Camere il compito di stabilire il livello massimo della spesa pubblica alla quale dovranno conformarsi sia la legge di bilancio sia le leggi di spesa approvate successivamente. Si tratta di un meccanismo di trasparenza e di assunzione di responsabilità, quale che sia il Governo: quale che sia il livello massimo della spesa pubblica che si proponga, vi sia un’assunzione chiara ed esplicita di responsabilità politica. Anche qui questo è il problema principale che noi poniamo. Vi è un’ultima questione, la quarta (questa la poniamo con forza, anche se ci rendiamo conto che è una vera e propria rivoluzione copernicana nel nostro sistema): quella del potere del Governo.

Infatti in tutti gli altri Parlamenti il Governo può porre il veto alle decisioni di spesa del Parlamento: lo prevede l’articolo 113 della Costituzione tedesca (lo ricordava il professor Barbera nel suo recente articolo su Il Sole 24 Ore); è il potere che ha il Cancelliere dello scacchiere; in Francia addirittura – io sono contrarissimo ad una norma del genere – si fa divieto, all’articolo 40, alla presentazione da parte dei parlamentari di leggi ed emendamenti di spesa: non si possono neanche presentare in Francia. Io non sono per questa strada. Noi innoviamo profondamente, col pareggio di bilancio, la nostra Costituzione, Una violazione della copertura finanziaria di una legge non va a riguardare soltanto l’incostituzionalità di quella legge: mette in gioco la costituzionalità dell’intero bilancio ed il Governo ne è responsabile. Come possiamo introdurre questo principio, se non dotiamo il Governo di quei poteri che ha poi in tutti gli altri sistemi parlamentari?

Qui mi rendo conto che il salto culturale è profondo, il mio auspicio è che vi sia una riflessione anche su questo quarto punto, ma mi rendo conto che la questione è difficile e solo con il consenso si potrà inserire una norma del genere. Tuttavia sulle prime tre questioni di maggiore rigore per rendere effettivo e sostanziale il cambiamento che noi proponiamo dell’articolo 81 della Costituzione, per fare un nuovo articolo 81 effettivamente rigoroso con il principio del pareggio di bilancio, occorre fare massima attenzione ai meccanismi che introduciamo: siano meccanismi non affidati alla tecnocrazia, siano meccanismi di rigore affidati alla responsabilità politica che Governo e Parlamento si devono assumere di fronte al Paese.