Ci servono nuovi sciamani della scrittura più che “addetti alla cultura”
01 Aprile 2012
di Luca Negri
Abbiamo già scritto di Ferruccio Parazzoli, di quanto non si possa prescindere dalle sue opere narrative, di quanto i romanzieri più giovani abbiano solo da imparare da tale maestro. Se torniamo a scriverne è perché merita ancor più attenzione l’ultimo Parazzoli saggista. Il suo “Eclisse del Dio unico”, appena uscito per il Saggiatore, è un libro veramente importante. Un pamphlet che lancia una sfida seria, a tutti i credenti. Ai non credenti dovrebbe interessare di meno, se non come esercizio di bella scrittura e acume filosofico. Bisogna saper lanciare lo sguardo verso un orizzonte metafisico per affrontare onestamente il libro, occorre sentirsi partecipi della stessa angoscia dell’autore per avvertire la tragicità dell’opera. Invece gli scrittori, i romanzieri, gli addetti alla cultura (come li chiamava Battiato in una nota canzone), soprattutto se allergici ai discorsi sul sacro, troveranno fra quelle pagine pesanti provocazioni (tali risulteranno) al di là delle intenzioni dell’autore.
Le prospettive, comunque, non sono incoraggianti per nessuno, lo scenario è fosco. Parazzoli fa la diagnosi, non impietosa ma colma di pietà, ed abbozza una cura; cura tutta sua, come è giusto che sia, che però essendo pubblica, divulgata, fa cultura e dà l’esempio. Noi ci troviamo d’accordo su tutta la diagnosi, a parte qualche differenza di prospettiva che chiariremo. Quel che non riusciamo a fare è trovare una risposta efficace al male nelle conclusioni del saggio. Beninteso, Parazzoli non intende dare risposte solide al lettore, è piuttosto Vito Mancuso a tirare le somme un po’ forzate nella prefazione: non gli par vero che un “intellettuale organico alla Chiesa”, uno che scrive sul quotidiano dei vescovi gli stia dando una mano nell’abbattere la sorpassata “impalcatura filosofica delle dottrina cattolica”. Noi che teniamo ancora al reggere di quell’impalcatura, (siamo convinti che il suo definito crollo piomberebbe tutto l’Occidente nella vuota chiacchiera spirituale) condividiamo in gran parte le preoccupazioni di Parazzoli.
Dunque, il “polo monoteista”, il “non avrai altro Dio all’infuori di me” si sta sciogliendo. Il Dio unico si eclissa e sfavillano idoli che non celebrano più la rivolta metafisica tipica dell’ateismo filosofico, che era comunque un atto di fede e produceva religioni civili; i nuovi idoli sono molto meno nobili, adatti ad una “civiltà occidentale tarata sul nichilismo di massa”. Dio è stato sostituito prima dalla ragione, poi dalla scienza e dalla rivoluzione. Ora, mentre la globalizzazione e “il demone della Finanza, imperante e profetante” fanno politica, rimane “la pappa del niente” per le masse. Gli intellettuali maneggiano ormai un linguaggio che ha perso la funzione di tramite, si condannano a cercare “il senso del mondo all’interno del mondo stesso”; una volta avevano una funzione sacerdotale, ma “gettati i paramenti alle ortiche, indossato l’abito borghese dello scrittore”, scambiano loro stessi per il Personaggio (ovvero Dio). Nel romanzo contemporaneo Dio ha la “faccia corrucciata dell’uomo occidentale”. Ci viene raccontata “una realtà ad altezza d’ombelico”, mentre “gli sciamani non volano più”. Per quanto riguarda la cultura cattolica la diagnosi è “afasia”, autoreferenzialità.
Su tutto ciò siamo d’accordo con Parazzoli, però non al punto da aggregarci allo “scisma sommerso” di cui scrive Mancuso. Ci sembra in primo luogo che in tutto il discorso manchi un punto fondamentale: la libertà dell’uomo, quella sfacciata libertà cristiana che dovrebbe infischiarsene dei determinismi storici e culturali. Noi crediamo che gli sciamani volino ancora. Ci tornano in mente la sentenza di Sartre, “la natura è muta”, e la nostra replica: Sartre è diventato sordo. Insomma, il Dio unico non si è eclissato, si sono semplicemente abbassate le diottrie degli uomini, degli scrittori. Il problema infatti dovrebbe essere posto su di un piano acustico e non ottico; Dio è Parola, suono, molto prima di essere visione, il sole del Dio unico fu prima tuono e sussurro. Gli scrittori, tutti coloro che lavorano e creano con la parola dovrebbero rendersi conto pienamente del loro potere, condiviso col creatore di tutto, e dunque della loro responsabilità. Il linguaggio può tornare ad essere “un mezzo di comunicazione tra orizzontale e verticale, tra ragione e mistero, tra società e mito”; la riuscita di simile impresa dipende dagli sforzi degli uomini, degli ascoltatori, più che dalla voce di Dio. Alla possibilità di una “narrativa teologica”, che tenti “la via della verticalità” vogliamo ancora sperare, consci che la speranza è “pericolosa come la disperazione”.
Questa progressiva “impotenza del linguaggio causata dalla morte dei miti” testimoniata dal depauperamento che ha ridotto la sciamano a semplice scrittore (“cronista del formicaio umano”), non è destino, a meno che non si affronti la questione sul piano apocalittico. Lo scrittore può tornare sciamano, riappropriarsi del potere creatore della parola. Deve però riattraversare la fase intermedia individuata da Parazzoli, quella del sacerdos, del mediatore fra Dio e uomini, del sacrificatore. Allo scrittore contemporaneo serve il sacerdote, anzi due: uno interiorizzato e l’altro all’esterno, ovvero sull’altare della Chiesa istituzione terrena. Lo sciamano potrà convivere con il sacerdote proprio perché il cattolicesimo è universale ed ha raccolto, giustificato, battezzato tutta la verità dei culti precedenti. Nulla è andato perso, nulla è irrevocabile. Dio si eclissa se non ci si concentra sui mezzi per vederlo ancora: suo figlio, la creazione, la Parola, la Chiesa (in sintesi, sono la stessa cosa).
Parazzoli approda, così ci chiarisce Mancuso, ad una sorta di panteismo. Scrive infatti che Dio ormai combacia con il mondo, è Rappresentazione sempre in atto che ha per unico nemico il Nulla. Un concetto che preso isolatamente tende all’eresia, ma può trovare posto nell’organicità cattolica. Basta intendersi: la Rappresentazione chiede di necessità un rappresentante, se non un autore. Esiste una voce che parla e racconta una storia (addirittura c’è chi crede che si sia fatta carne per raccontar meglio la storia, non bastavano i suoni e le lettere), tutto sta nel saperla ascoltare. Forse saremo costretti in futuro a trangugiare solo “la pappa del niente”, circondati da intellettuali ombelicali e da pulpiti afasici. Ma basteranno pochi mistici nascosti, eremiti sconosciuti, monaci interiori che ancora sentono la voce del Dio unico, ancora si scaldano al sole della sua parola e possono uscire dal recinto della storia.