Clandestini zero ma la migrazione interna è fuori controllo

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Clandestini zero ma la migrazione interna è fuori controllo

07 Febbraio 2009

Se qualcuno vuole capire il fenomeno dell’immigrazione in Cina deve evitare ogni paragone con l’Italia. Prima di tutto è una questione di numeri. Nel nostro Paese gli stranieri con regolare permesso sono quasi 4 milioni. In Cina, senza contare Hong Kong e Macao che (per il passato coloniale) fanno storia a sé, sono mezzo milione: una goccia nell’oceano di un miliardo e 300 milioni di abitanti! Però saltano all’occhio subito altre differenze:

– in Italia le fabbriche al nord e l’agricoltura al sud hanno disperato bisogno di lavoratori stranieri. Senza dimenticare le schiere di badanti, muratori e camerieri extracomunitari. In Cina i lavori cosiddetti umili (e sottopagati) vengono svolti dagli stessi cinesi, tanto che per un filippino che fa il domestico è molto difficile ottenere il visto d’ingresso.

– l’Italia è afflitta dalla piaga, sempre più grave e apparentemente irrisolvibile, dell’immigrazione clandestina. In parallelo, aumentano il disagio sociale e i fenomeni di razzismo, come gli ultimi fatti di violenza confermano. In Cina gli ingressi irregolari sono inesistenti e gli stranieri non sono mai al centro della cronaca nera, né come colpevoli né come vittime. I cinesi storicamente si credono un popolo superiore, giudicano ad esempio poco ‘attraenti’ le persone di colore (i matrimoni misti sono una rarità) ma non si abbandonano mai a gesti di intolleranza o discriminazione.

– il tasso di crescita demografica in Italia sarebbe negativo senza il contributo degli stranieri. La Cina, invece, convive da sempre con il problema opposto della sovrappopolazione.

Ragioni storiche, culturali, naturalmente economiche, sono dunque alla base della distanza abissale tra Italia e Cina in materia di immigrazione.

Anche la politica, a Roma e Pechino, si è spesso comportata in modo opposto con gli immigrati. Il governo cinese non ha mai dovuto (né voluto) imporre quote di ingresso. Ma non ha mai parlato neppure di sanatorie, così frequenti in Italia e, per qualcuno, anticamera all’impunità per chi non è in regola.

Ad uno straniero che vuole vivere stabilmente in Cina serve soprattutto il visto di lavoro, che dura un anno ed è rinnovabile. La sua concessione, però, è subordinata a paletti molto rigidi.

Fase 1: prima di tutto, le autorità cinesi controllano il titolo di studio. Se lo straniero non è laureato, tutto diventa più complicato. A questo punto, l’azienda o l’istituzione per cui l’immigrato lavorerà deve dimostrarne l’assoluta indispensabilità.

Fase 2: se non vengono riscontrate pendenze penali, il candidato al permesso di lavoro deve sottoporsi a lunghi controlli medici. In Cina, naturalmente, non certo in patria… In ogni città, infatti, esiste un ‘quarantine hospital’ dove l’immigrato deve recarsi entro un mese dal suo arrivo. Il check up è completo, va dalla visita oculistica alle analisi del sangue. Aggiornata e corretta, sembra l’accoglienza riservata dagli americani ai nostri emigranti cento e passa anni fa ad Ellis Island.

Tutto si svolge nel rispetto della privacy, per carità. Ma lo straniero non otterrà mai il visto d’ingresso se ha una malattia venerea o l’Aids. Se, invece, supera brillantemente gli esami si può registrare alla questura locale e, almeno per 12 mesi, è tranquillo. Sempre che nel frattempo non cambi città, commetta reati o evada le tasse. Nel primo caso deve ricominciare con l’intera, estenuante, trafila di controlli. Negli altri due casi finisce in prigione o, se è più fortunato, viene espulso con foglio di via di 8 anni.

Insomma, si può discutere, e molto, sui metodi dei cinesi. Ma da quelle parti non esiste nessuna emergenza immigrazione.

I problemi e le tensioni sociali, invece, riguardano le massicce migrazioni interne, che spingono ogni anno centinaia di milioni di cinesi dalle zone rurali e povere del Paese, alle ben più ricche metropoli della costa. Una su tutte Shenzhen, nel Guandong, la provincia simbolo del boom economico cinese: la città ha 10 milioni di abitanti ma non più di 200mila sono originari del luogo. Il resto sono emigrati o figli di emigrati, che hanno deciso di non tornare più nelle campagne, pur rimanendo spesso cittadini di serie B: rispetto agli abitanti locali hanno stipendi più bassi, meno copertura sanitaria ed è più difficile accendere un mutuo.

Tanti altri migranti, però, quando arriva il capodanno cinese (è appena trascorso) prendono il treno e, dopo un viaggio anche di 3-4 giorni, tornano al villaggio natale, per stare in famiglia durante la Festa di Primavera. Il copione è lo stesso ogni anno. Ma questa volta il finale è stato diverso e persino tragico. Oltre 20 milioni di contadini, infatti, non sono più ripartiti per le città della costa. Per loro non c’era più lavoro. Questo è il conto che la crisi mondiale sta facendo pagare oggi alla Cina.