Colonia, alle donne dico: la questione è l’Islam ed è inutile girarci attorno
11 Gennaio 2016
La “questione Colonia” continua a crescere, ad arricchirsi ogni giorno di nuovi episodi, come una palla di neve che rotola e rischia di diventare valanga. Donne che non avrebbero denunciato trovano il coraggio di farlo perché lo hanno fatto altre, in un contagio positivo che è liberatorio, ma che rivela numeri sconcertanti. Perché in questo caso non ci sono soltanto i classici motivi che trattengono le donne molestate dal parlare di quello che è accaduto, c’è anche il timore di apparire razzista, di sentirsi in una posizione falsa. Per giorni abbiamo assistito agli effetti paralizzanti di questo imbarazzo, sia in Germania, dove le notizie sono state fornite con il contagocce, sia in Italia, dove i commenti sono stati cauti fino al ridicolo.
Onore a Lucia Annunziata, che ha scritto sull’Huffington post un pezzo privo di autocensure e timidezze, senza timore di non apparire abbastanza di sinistra. Di più: ha chiesto alle “madamine in parlamento” di parlare, di esporsi, di difendere le donne anche quando è più scomodo, e si rischia di non avere nel guardaroba ideologico nulla di adatto all’occasione, nulla di già noto, impeccabile e rassicurante. Per le donne di sinistra forse è più difficile, ma anche per quelle di destra non è poi tanto semplice, se si vuole aprire una discussione seria. Il tema è l’Islam, inutile girarci intorno, cercando di rifugiarsi nella generica accusa di maschilismo in cui tutti gli aggressori sono grigi, o di ridurre la questione a un problema di teppismo occasionale o di squilibrio di genere (ne ha scritto Politico, un settimanale americano, ripreso dalla Benini sul Foglio).
Certo, c’è un problema di maschi soli. Ma non è il punto centrale: se questi uomini senza donne non fossero islamici, se non appartenessero a una cultura antropologica e religiosa che non considera la donna come persona, le violenze non avrebbero assunto la dimensione di massa che è ormai evidente, facendo temere anche una regia centralizzata. Come ha scritto Kamel Daoud su Repubblica, “Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei”.
Non abbiamo mai fino in fondo discusso di questo, nell’Occidente benpensante che al massimo sfoggia i propri sensi di colpa nei confronti di culture altre, ma evita di analizzarle in modo obiettivo, e crede di poter facilmente azzerare tabù radicati che non si disperdono al semplice contatto con il nostro universo dei diritti. La risposta più frequente è annegare la questione islamica (parlo sempre del rapporto tra i sessi) e depotenziarla, assimilandola ad altro. Il velo? Ma anche le nostre nonne lo portavano, almeno in chiesa. Le molestie? Semplice frustrazione maschile. Le spose bambine, la poligamia? Costumi che l’integrazione può superare, e così via.
Oggi per la prima volta siamo di fronte a un nucleo duro della dimensione religiosa musulmana che si dimostra resistente, che si oppone alla nostra cultura in modo frontale, e che le consuete chiavi di lettura non riescono ad affrontare. “Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura”, scrive ancora Daoud. Dobbiamo cominciare a vederla, e a farlo senza ingenuità. Dobbiamo farlo noi donne.