Come affrontare e vincere la sfida educativa
18 Novembre 2007
Per le società del passato
l’educazione ha sempre rappresentato un compito; per la nostra sta diventando
soprattutto una sfida. Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una
generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei “nuovi venuti”, secondo la
tradizione ereditata dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti constatiamo la
dissoluzione di questa sorta di automatismo. La parola “tradizione” è diventata
non a caso sospetta, sinonimo quasi di vecchiezza e di incapacità di far fronte
ai nuovi problemi; una parola insomma di quelle che suscitano reazioni emotive
sfavorevoli. Quanto alla scuola, dopo la sua fase di politicizzazione più
estrema e più vandalica proprio nei riguardi della tradizione, essa sembra aver
accantonato qualsiasi pretesa di essere un luogo educativo al servizio dei
valori fondamentali della comunità e galleggia ormai affannosamente in un mare
di incertezze. Se poi consideriamo la crisi analoga che attanaglia anche la
famiglia, credo che si chiarisca in che senso dicevo che l’educazione sta
diventando oggi, a tutti i livelli, una sfida, un compito sempre più difficile.
Dal momento che viviamo in una
società “ipotetica”, orgogliosa della propria “debolezza” normativa e
intellettuale, le nostre istituzioni educative, in particolare la scuola,
finiscono necessariamente per navigare a vista; non hanno una rotta precisa, né
un obbiettivo sociale da raggiungere; si sono fatte sempre più
autoreferenziali, sempre più invischiate in problemi che sono esse stesse a
creare, in una sorta di continuo cortocircuito con la realtà. Vengono
moltiplicate le discipline di studio e contemporaneamente si registra una
diffusa perdita di senso dello studio
stesso; si dice che i ragazzi, studiando, debbono soprattutto divertirsi, e poi
ci si sorprende che essi, alla scuola, preferiscano altri divertimenti; si
parla tanto, e giustamente, di una sorta di orgia dell’informazione nella quale
tutti saremmo immersi, ma la scuola, anziché fornire gli strumenti adatti a
districarsi in quest’orgia, sembra farsene semplice cassa di risonanza; in nome
di un malinteso pluralismo si eludono le questioni sostanziali collegate ai
valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli e poi ci si
sorprende che i giovani non diventano per questo più aperti all’”altro”, ma
semplicemente più spaesati, più sradicati e quindi più esposti al rischio di
nuovi fanatismi. La scuola, si dice, deve servire a introdurre i giovani nel
mondo del lavoro; ma poi, almeno in Italia, dobbiamo registrare un’incomprensibile
avversione per le cosiddette “scuole professionali”; l’introduzione delle nuove
tecnologie multimediali viene presentata sovente come la nuova frontiera
dell’educazione, ma in realtà sembra accentuare soltanto il disorientamento che
pervade i nostri sistemi educativi, sempre più improntati a una preoccupante
superficialità. Per farla breve, tutto sembra configurarsi come una sorta di
alibi per eludere la questione cruciale: che cosa significa educare?
Proprio in questi giorni il
Ministro Fioroni sembra lasciar intendere di essere intenzionato a prendere
finalmente il toro per le corna. La volontà di ripristinare alcune evidenze
educative fondamentali, quali lo studio della grammatica italiana, delle tabelline
e della geografia, nonché il tentativo, ancorché pallido e purtroppo in gran
parte rimangiato, di reintrodurre gli esami di riparazione mi sembrano segnali
importanti. Proprio quando la situazione è complessa occorre infatti aggrapparsi
a idee semplici. Per cui dico al Ministro Fioroni: non si fermi; vada avanti, e
abbia magari il coraggio di riproporre nelle nostre scuole l’importanza della
disciplina e il ritorno al vecchio voto, spazzando via quegli stucchevoli
giudizi che affannano insegnanti, genitori e alunni, senza che nessuno ci creda.
“Educare l’uomo –così recita
uno dei tanti aforismi fulminanti di Nicolàs Gòmes Devila- è impedirgli la
libera espressione della sua personalità”. Ecco una bella provocazione per gran
parte della pedagogia contemporanea. Lasciati a loro stessi, come aveva ben intuito
Durkheim, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei loro desideri senza
fine. Proprio per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di
insegnare. Ma è difficile avere l’una e gli altri se non c’è una tradizione
ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto
un “bene”, è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e, incredibile dictu,
fiducia nel futuro. Proprio così: fiducia nel futuro. Il principio vitale della
tradizione, infatti, non è tanto e non è solo il passato, la memoria, ma la
capacità di assicurare continuità alle nostre vite, predisponendole al futuro.
Invece, disamorati come siamo della nostra tradizione, sempre più sfiduciati
nel nostro futuro, ci siamo ormai assuefatti all’idea che a scuola non si debba
mai chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile. Qualsiasi proposta
educativa incentrata sulla “qualità” viene non a caso liquidata come
intrinsecamente “elitaria”. Ma in questo modo, come denunciò a suo tempo
Christopher Lasch, un intellettuale di certo non di destra, ci allontaniamo
sempre di più dal senso stesso dell’educazione.
Anziché indirizzare
l’attenzione dello studente verso quello che all’inizio egli può forse faticare
a capire, ma il cui fascino potrebbe anche afferrarlo, si preferisce ricorrere,
tranne in rarissimi casi privilegiati, alla semplificazione, al livellamento,
all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in una pagina
memorabile della sua autobiografia intellettuale, definisce non a caso
“criminali” e dietro i quali vede nascondersi una “condiscendenza volgare”
verso gli studenti stessi, giudicati a priori incapaci di migliorarsi. Sembra
insomma non esserci più posto per una vera e propria “formazione” (la famosa Bildung),
cioè per quel processo attraverso il quale, con impegno e rigore, l’individuo
assimila criticamente un determinato universo di valori non soltanto
direttamente in certe discipline specifiche, poniamo la filosofia o la
religione, ma anche indirettamente in tutte le altre discipline:
dall’aritmentica alla grammatica, dalla storia alla geografia e perfino in
quelle che una volta si chiamavano “applicazioni tecniche”. Per dirla ancora
con le parole di Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno
a un determinato orizzonte di valori rischia oggi di venire considerato come un
“attentato alla sua ‘libertà di scelta’”. Ma proprio se abbiamo a cuore questa
libertà occorre invertire la rotta. Essa non si conquista infatti con la
“neutralità etica”, né rinunciando alla formazione a vantaggio della semplice
comunicazione di saperi. La Bildung è molto di più che un “sapere”. Meno
che mai essa può essere ridotta a
informazione. Direi anzi che oggi uno dei sui compiti principali sia proprio
quello di salvarci dall’informazione, di aiutarci a resistere all’enorme flusso
di informazioni dal quale siamo sopraffatti. Ma per far questo, per svolgere
questa fondamentale funzione al servizio della libertà e della irripetibile
unicità di ciascun individuo, la Bildung ha bisogno di tornare a radicarsi saldamente sulla
tradizione cristiana e illuministica dell’Occidente; ha bisogno di tornare a
essere veramente una “relazione educativa”. E tutto ciò, sia ben chiaro, non
per rendere l’individuo un buon credente o un buon cittadino, ma semplicemente
per aiutarlo a essere se stesso.
Per farla breve, è necessario riscoprire il
significato, la rilevanza e la serietà della “relazione educativa”. Il nostro
sistema educativo è attraversato da lacerazioni e problemi che interessano
certo il suo ordinamento giuridico, la cosiddetta libertà d’istruzione, la
sindacalizzazione forsennata o la carenza di strutture scolastiche, ma i
problemi più pressanti interessano soprattutto
i suoi “paradigmi pedagogici”. Non si può concepire l’insegnamento come
un “esperimento”; il lavoro dell’insegnante come quello di un impiegato alle
poste; la scuola come un luogo di parcheggio al servizio di genitori troppo
occupati. Se è vero che viviamo ormai
nella società dell’incertezza, è altrettanto vero che, proprio se vogliamo
sfruttarne a pieno le grandi opportunità e non rimanerne vittime, abbiamo
soprattutto bisogno di una scuola vera, di relazioni educative vere. Non è più
tempo di chiacchiere pedagogiche, dietro le quali, il più delle volte, stanno
soltanto interessi corporativi. A scuola i ragazzi hanno bisogno soprattutto di
essere aiutati a scoprire la bellezza e la serietà della vita, a sentirsi a
casa nel mondo che li circonda; in una parola, hanno bisogno di maestri. Altra
idea semplice, ma fondamentale.