Come cambia il processo all’americana

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Come cambia il processo all’americana

05 Ottobre 2007

Cinquant’anni dopo, Perry Mason sarebbe disoccupato. La sua arte oratoria non serve quasi più. Nel 1957 lui si metteva lì, difronte a quei dodici tra uomini e donne, e cominciava a parlare. Era il punto più alto del processo all’americana, quello che per tutti era il processo vero: procuratore, avvocato, giudice, giuria popolare. Quello di Hamilton Burger, quello di “La parola ai giurati”, il film del 1957 di Sidney Lumet, con Henry Fonda, Lee J. Cobb e E. G. Marshall, quello dei legal thriller di John Grisham.

Adesso quel processo è entrato in crisi, ammaccato e sbeffeggiato da una pletora di avvocati che affollano le aule dei tribunali con ingiunzioni, appelli, contrappelli, richieste di patteggiamento. Si stanno mangiando la storia, volendo anche un pezzo di costituzione degli Stati Uniti.

Il funerale del “jury trial” l’ha celebrato qualche tempo fa il New York Times, anticipando i dati di un’indagine dell’università del Wisconsin. Ora che quei risultati ci sono e sono definitivi, il professor Marc Gallanter ha pubblicato un saggio sul “Journal of Dispute Resolution”.

Nel 2005 i tribunali federali degli Stati Uniti hanno celebrato 3.600 processi civili, contro i 5.800 del 1962. Il calo non sembra enorme in termini assoluti, finché non si tiene conto del fatto che nel frattempo i casi rispetto a quell’anno sono quintuplicati, diventando oltre 14.000. Per il processo penale il fenomeno è pressoché identico: a dibattimento, coi testimoni da ascoltare e la sentenza popolari si arriva poco perché le cause sono così tante da non permettere neppure la formazione delle giurie.

Una delle spiegazioni è questa: il numero degli avvocati cresce a un tasso doppio rispetto alla popolazione. Significa che l’azione legale è sempre più promossa su iniziativa di un avvocato che spinge i cittadino a cercare giustizia in un’aula di tribunale. E però visto che i giurati fanno parte di quella porzione di popolazione che cresce meno rispetto ai legali, ecco che per non aspettare i tempi necessari per la formazione di una giuria, il processo cambia pelle. Si arriva all’accordo prima dell’inizio del dibattimento: si patteggia, si chiede il rito abbreviato, si cerca il processo sommario, quello con un solo giudice che decide sulla base degli elementi raccolti in un periodo di indagini molto limitato. Carta, allora. La carta al posto delle persone, dei testimoni che nell’immaginario collettivo erano i personaggi che trasformavano il processo in una commedia in presa diretta: lacrime, bugie, spergiuri, confessioni. Perry Mason inchiodava sempre un testimone per scarcerare l’imputato che difendeva.

Nel suo saggio, Gallanter scrive così: «Non arrivare al processo prima era l’eccezione, ora sta diventando la regola». La tendenza è quantificata nei numeri: nel 1960, i giudizi sommari chiudevano l’1,8 per cento dei casi civili; nel 2005, secondo i dati del Federal Judicial Center, sono saliti al nove per cento, su un 17 per cento delle richieste. Gallanter è in allarme: scrive che l’America «si sta orientando verso un tipo di processo all’europea, in cui l’esito è deciso sulla base degli atti giudiziari piuttosto che sul confronto diretto di testimoni che vengono esaminati dalle parti». Non è l’unico a essere preoccupato. Anche i giudici hanno cominciato a ragionare sulla crisi del sistema all’americana. Anche di quello penale. Perché per il civile, qualcuno è anche disposto a far passare la commistione dei generi, ma per il procedimento penale per reati come omicidio, rapina, stupro, la giurisprudenza teoricamente non ha nessuna voglia di cedere.

Invece, a quanto pare anche su quel fronte, la maggioranza dei casi si esaurisce con la confessione dell’imputato in cambio di uno sconto di pena: «Chi ha il fegato di andare al processo davanti alla giuria come garantito della Costituzione rischia una pena “selvaggia” che può essere di cinque volte superiore a quelle assegnate a imputati che si dichiarano colpevole e cooperano con il governo». Il giudice William Young della Corte Federale di Boston è l’alleato principale del professor Gallanter. Terrorizzato dal processo all’europea, dice che l’addio al dibattimento davanti alla giuria «rappresenta la sconfessione del più straordinario e riuscito esperimento di sovranità popolare in tutta la storia».

Quello che racconta Young si specchia in un altro saggio, scritto da un’altra professoressa di Legge, Suja Thomas. Dal suo studio dell’università di Cincinnati, Thomas ha spiegato alla “Virginia Law Review” che il processo sommario negli Stati Uniti è anticostituzionale. Il quinto, il sesto e il settimo emendamento della Costituzione Usa impongono la presenza di una giuria come contrappeso popolare all’autorità centrale.

La questione fu posta alla Corte Suprema già tre anni fa: il giudice supremo Antonin Scalia scrisse che c’erano ottimi argomenti per «lasciare la giustizia tutta nelle mani dei professionisti», ma che per gli Stati Uniti d’America ciò era impossibile perché la Costituzione aveva previsto e preteso una legge popolare come contraltare alla legge statale e aveva diviso rigorosamente l’autorità di giudice e giurie. La bolla del più alto grado di giudizio americano non è stata comunque sufficiente: il processo al processo continua nei fatti in tutte le aule di giustizia, rinvigorito dai cittadini sempre più convinti che un patto extragiudiziale o un patteggiamento eviti lunghezze burocratiche e, in caso di colpevolezza, porti anche sconti di pena. Lì la Costituzione può entrare, ma a un certo punto si deve fermare.