Come la pensano i cristiani sul diritto alla vita?

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Come la pensano i cristiani sul diritto alla vita?

17 Ottobre 2007

I cristiani concordano tra loro sui
cambiamenti climatici e non sul diritto alla vita e sulla natura umana
dell’embrione. Sembra un paradosso, ma così è. L’effetto del relativismo e
della autolimitazione della ragione si fa sentire anche in campo ecumenico e
l’attuale ideologia dei cambiamenti climatici non risparmia neanche il dialogo
tra le confessioni cristiane. Si ha l’impressione che alcune attuali difficoltà
dell’ecumenismo dipendano più dalla ragione che dalla fede. Anche l’ecumenismo
ha bisogno di “allargare la ragione” come invita a fare il Papa?

Quanto è successo alla recente
Assemblea ecumenica di Sibiu (Romania), conclusasi il 7 settembre scorso, può
essere significativo. I rappresentanti delle varie confessioni cristiane
d’Europa sembra non si siano trovati d’accordo su una frase del Messaggio
finale in cui si parlava di “diritto alla vita dal concepimento alla morte
naturale”. In questi casi si sollevano sempre motivi di forma: la frase non era
stata approvata in assemblea ma inserita in seguito, la frase approvata era
un’altra che parlava solo di diritto alla vita omettendo dal concepimento alla
morte naturale e così via. Ma sotto questi motivi procedurali c’è sempre una
questione di sostanza. E’ noto, infatti, che le comunità protestanti hanno
posizioni molto diverse sull’aborto e l’eutanasia rispetto alla Chiesa
cattolica. Si è dovuto aspettare il testo definitivo per due settimane e infine
la frase è stata tolta. Una nota spiegava la controversia procedurale ma
intanto il Messaggio veniva pubblicato senza sanare una divisione su una
questione antropologica fondamentale.

Si è abituati a pensare ai
contrasti ecumenici come basati su questioni di fede. In questo caso però è un
contrasto di ragione, o meglio di sfiducia nella capacità della ragione di
conoscere la verità sull’uomo. Il movimento ecumenico ha preso da tempo la
strada dell’incontro tra confessioni diverse sui temi della giustizia, della
pace e della salvaguardia del creato. Ma per proseguire su questo percorso non
può fare a meno di una ragione “allargata” e capace di conoscere il bene nel
campo dell’etica. Il relativismo produce una negativa ondata di ritorno sul
processo ecumenico.

Se tra le confessioni cristiane
c’è diversità di vedute sul diritto alla vita, sembra in compenso non essercene
sui cambiamenti climatici. Come è noto la scienza non è in grado di dire una
parola chiara e definitiva su questo problema, ma nonostante ciò sembra
trattarsi di una certezza maggiore rispetto al diritto dell’embrione umano ad
essere rispettato. Prendiamo ad esempio il Documento “In Whose Interest?”
(Nell’interesse di chi?) emanato il 30 settembre scorso dal Consiglio Nazionale
delle Chiese dell’Australia e firmato da 7 confessioni cristiane di quel paese.
Il Documento  parla delle sfide della
globalizzazione e, giustamente, esamina i problemi della povertà e
dell’ingiustizia, delle armi e del nucleare, del commercio internazionale e del
terrorismo. Tratta anche dei diritti umani, ma senza un minimo accenno al
diritto alla vita quando è a tutti noto come questo sia ormai un problema
veramente globale. Organismi internazionali promuovono campagne per la
sterilizzazione; fanno dipendere gli aiuti economici dall’assunzione di
politiche di riduzione delle nascite; l’aborto viene promosso come un fatto di
salute riproduttiva; la bioingegneria ci mette in mano la possibilità della
clonazione e delle chimere e su ciò si fanno investimenti con molti zeri
distogliendoli dallo sviluppo; infanticidio e selezione sessuale sono praticate
ampiamente in giro per il mondo; i casi di eugenetica si moltiplicano. Ma per i
cristiani d’Australia su tutto questo non ci può essere un pronunciamento
comune. Sui cambiamenti climatici invece sì.