Come liberarsi del lungo Sessantotto

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Come liberarsi del lungo Sessantotto

05 Agosto 2007

La via alla revisione del Sessantotto,
nella mia personale esperienza, è stata la via storiografica. Ci sono arrivato,
assieme a Giovanni Orsina, indagando i percorsi di formazione della classe
politica repubblicana. Quella ricerca ci fece capire una cosa, anzi due.
L’incubazione del ’68 in Italia iniziò già a metà degli anni Sessanta. E il
fenomeno si concluse solo alla fine del decennio successivo. Da noi, dunque, il
Sessantotto è durato circa quindici anni: una stagione lunghissima, in grado di
sedimentare ideologie, culture, comportamenti.

E’ una differenza fondamentale con
quanto accaduto altrove. Negli Stati Uniti, ad esempio, lo strappo è stato
certamente più lacerante. Un’intera società smarrì la propria innocenza. E fu
allora che il “sogno americano” si scontornò. Ma nelle pagine finali della sua Pastorale, Philippe Roth ci descrive
come, dopo qualche anno, quello sbrego aveva prodotto la sua cicatrice. Persino
nelle esistenze nelle quali la ferita era stata più profonda.

Nella Francia oggi di Sarkozy e allora
di de Gaulle si giunse a un passo dall’insurrezione. In quel mitico maggio,
tornarono le barricate nel quartiere latino e il Generale stesso fu così
turbato da fuggire a Baden Baden. Fosse pure per qualche ora. Meno di un mese
dopo che i primi disordini avevano accennato a mostrarsi, però, la sfilata
della maggioranza silenziosa sugli Champs
già aveva chiuso la partita. Almeno politicamente. Sarebbero rimasti tanti
“residui”, di natura anche politica. Ma almeno su un terreno – quello delle
istituzioni e della sociologia delle classi dirigenti – il Sessantotto era
stato battuto.

In Italia non fu così. Si aprì allora
una lunga partita tra l’arena ufficiale e quella alternativa che il Sessantotto
aveva selezionato. La prima avrebbe cercato di invischiare, cooptare, compromettere
la seconda. La quale, da parte sua, si sarebbe mossa tra il mito originario e
l’illusione di conquistare lo Stato dall’interno. In questa guerra di trincea,
a rimetterci sono state sia le istituzioni sia la cultura politica. Nel campo
delle istituzioni, il Sessantotto ha costituito un ulteriore blocco del
sistema, rendendo ancor più anacronistica di quanto non fosse per il “fattore
K” una concezione della democrazia come conflitto regolato. Nel campo della
cultura, il Sessantotto non ha saputo prendere distacco dalle ideologie dalla
cui contestazione, pure, è sorto. Ha finito per proporre una versione, insieme,
più povera e più rigida degradando ogni pragmatismo a compromesso con il
potere. Persino quanti hanno cercato un’uscita di sicurezza dalla deriva
ideologica compiendo la loro esperienza militante nelle fila del partito
radicale, non sono riusciti a sfuggire al radicalismo politico e
comportamentale. Quei giovani, anziché andare verso la Cina di Mao, approdarono
in America, laddove altri della loro generazione avevano stabilito il centro
dell’impero del male. Ma ci giunsero on
the road
, introiettando tutti i miti politici e comportamentali di una
minoranza libertaria senza passare per la comprensione dell’America ufficiale,
che pure a quella minoranza aveva consentito la sua diversità.

Il Sessantotto italiano, considerato nel
suo insieme, non ha saputo evitare la dimensione del dramma. I “cooptatori”,
certo, hanno recuperato alla politica tante esistenze che sennò si sarebbero
perse. E i libertari hanno rappresentato per tanti giovani l’alternativa
possibile lasciandoli figli della loro generazione. Ma nessuno allora si
incaricò per davvero di scontrarsi frontalmente con la pretesa innocenza che ha
consentito al Sessantotto di recuperare, in un contesto di presunta novità,
miti antichi della politica quali quelli della violenza o della sovversione
politicamente corretta.

Tranne che in alcuni coraggiosi
testimoni, non vi fu risposta a questa pretesa. O, al più, si trattò di
risposta ideologica. Come quella di chi contestò ai giovani il loro immaginifico
marxismo. O di chi ai loro integralismi marxisti ritenne di contrapporre
un’ideologia altrettanto integrale come la nonviolenza, proposta non come
naturale conseguenza di un processo di civilizzazione, ma come pratica
alternativa per scardinare il potere.

Andò così dispersa la responsabilità
come divisa personale ordinaria e, direi, scontata. La responsabilità avrebbe
riguardato solo alcuni, e nella dimensione suprema delle scelte irreversibili. A
livello individuale il patrimonio accumulato dalle generazioni precedenti venne
allora rifiutato. Il rapporto genitoriale, nei casi migliori, si sviluppò sul
versante affettivo ma amputato di quella trasmissione d’esperienza che nel
senso comune divenne inutile, quando non dannosa. A livello politico, nelle
grandi scelte, si poté essere anti-americani, senza pagare il fio di essere, al
contempo e obbligatoriamente, per realismo, filo-sovietici. E si poté
rinverdire il mito della violenza rivoluzionaria, senza porsi il problema
d’imbrigliarlo attraverso una pratica legalitaria. I nodi irrisolti della storia
della sinistra italiana – certamente dalla resistenza in poi ma pur quelli
ancora precedenti -, si sciolsero anche nella pratica terroristica. In quella
terribilmente vera e in quella micro-criminale, più tollerabile e, per questo,
più tollerata. Tante esistenze sono state così bruciate e altre hanno affidato
alla roulette del destino la
circostanza che il lancio di una molotov potesse lacerare una vita o lentamente
degradare a brutto ricordo da rivendicare senza tema vent’anni dopo (o qualcuno
di più), nella scia di un beffardo “formidabili
quegli anni”
.

Ma tutto ciò, si potrebbe controbattere,
riguardò soltanto quella minoranza mobilitata che dai quattordici anni in poi
consumò in un orizzonte politico totale la propria esperienza di vita, con la
stessa incoscienza con la quale oggi i nostri figli affrontano una partita di Risiko. Si potrebbe a ciò facilmente
replicare che la storia politica è sempre il prodotto di èlites e minoranze attive. Ma la risposta, purtroppo, risulterebbe
insufficiente. I miti del lungo Sessantotto sono stati pervasivi e in Italia
hanno avuto tutto il tempo per sedimentarsi fino a trasformarsi in senso comune.
Cosicché gli studenti di quegli anni sono cresciuti senza essere contraddetti.
Si sono fatti a loro volta maestri e quegli stilemi hanno avuto il tempo di
legittimarli dalla parte della cattedra.

Certo: dal settantasette in poi si è
assistito a una progressiva perdita di sostanza e di peso politico del messaggio
propalato nelle scuole e nelle università. L’hanno chiamato “riflusso”.
D’allora assemblee e occupazioni non producono più raccolte di documenti. Non
per questo, però, sono cessate. Si sono prolungate fino a noi come rito che
trasferiva nei nuovi contesti il presunto anti-autoritarismo dei tempi che
furono, l’egualitarismo, l’odio per il privato e ancora altre mitologie alle
quali, in realtà, tenevano più i maestri degli studenti. Generazioni e
generazioni hanno così continuato a mobilitarsi contro il loro futuro. Mentre
la scuola e, ancor più, l’università italiana hanno continuato a perdere
competitività, contro ogni tentativo d’innovazione si sono abbattuti gli slogan
di un tempo. Seppure più raramente, gli studenti sono tornati in piazza con il
nostalgico beneplacito di anziani ai quali quella loro mobilitazione è servita
per rafforzare l’arroccamento nelle posizioni di potere alle quali, nel
frattempo, sono assurti. L’ultima volta è accaduto non più di due anni fa, contro
il ministro Moratti e un suo timido tentativo di riforma. I giovani hanno
sfilato fino a piazza Navona; i rettori, dal chiuso dei loro studi li
appoggiavano. Salvo, due anni più tardi, al cospetto dell’immobile disastro
prodotto da un ministro che giunge dal Sessantotto, sentirsi colpiti da
struggente nostalgia verso quella signora milanese cortesemente ferma ma presente
e attiva.

In un ambito meno politico, questo
stesso processo di stanca sopravvivenza sta producendo qualcosa di ancora più
temibile. Il fatto è che la lunga agonia ha consentito al senso comune
selezionato dal Sessantotto di sopravvivere alle ideologie – sia quelle vere
sia quelle posticce – che esso veicolava. Esso si è così trasformato in stile educativo,
nelle case ancor prima che nelle scuole. E si è messo al servizio di pratiche e
comportamenti che negano in radice quel messaggio di rispetto, uguaglianza,
solidarietà universale che il mito aveva veicolato. Ineludibile legge del
contrappasso. Della liberazione sessuale sono rimaste le immagini pornografiche
della compagna di classe fatte circolare su internet. L’anti-autoritarismo si è
trasformato nella palpata di culo alla professoressa imbarazzata. E
l’opposizione al capitalismo sta producendo le sollevazioni contro i Presidi che
vietano il cellulare in classe.

La china potrebbe essere discesa ancora
più in basso. Per questo è urgente porre il problema individuandone la sua
radice culturale oltre che le sue conseguenze concrete. Per questo, alla
vigilia del suo quarantesimo anniversario, bisogna impegnarsi per far cessare
il lungo Sessantotto. Le analisi e i numeri sulle crisi che esso ha prodotto nelle
scuole e nelle università non bastano. Del Sessantotto ci si libera solo se
saranno gli studenti ad aprire la porta a tutto ciò esso ha negato: autorità,
merito, eguaglianza di opportunità e non di risultati. Per questo, il
Sessantotto va narrato ancor più che analizzato. E vanno raccontati cosa sono i
“residui” che esso ci ha lasciato, che stanno bloccando più di quanto si creda
le capacità del nostro Paese di competere. Perché, se non ci si vuole
rassegnare al declino, all’alba del terzo millennio la competizione non la si
può evitare. Il Sessantotto non è riuscita a cancellarla.