Come si uccide un premier/ 2

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Come si uccide un premier/ 2

24 Settembre 2015

(Leggi la prima puntata) Non è semplice dire, a così breve distanza e con una situazione globale fluida come quella attuale, se la strada scelta dal governo sia stata corretta o no. Ma non è quello il punto. Abbott si è scontrato con il rifiuto tout court di un paese viziato di far fronte alla nuova realtà. Gli australiani non sanno davvero da dove venga il loro benessere. Sono cresciuti nell’alveo benevolo e confortevole di una politica efficiente, che ha garantito stabilità e ininterrotta crescita, e così hanno avuto il lusso di dedicarsi alle cose belle della vita – all’empatia, alla giustizia, alla pace e all’amore universali. Per questo motivo, e’ facilissimo mobilitare l’opinione pubblica contro le compagnie minerarie e i loro ricchi magnati, contro il carbone e il gas, contro le tasse e le spese per l’esercito. Perché gli australiani non vivono ancora sulla terra. L’esercito e’ simbolo di qualcosa che contraddice il desiderio di pace universale, e quindi e’ cattivo.

 

Nessuno sembra interessato al fatto che la pace, negli affari internazionali, e’ di solito una congiuntura passeggera, mai universale, e sempre precaria. Le miniere inquinano e i dirigenti sono miliardari oltre ogni decenza per l’australiano medio. Il carbone e’ responsabile dei cambiamenti climatici e quindi va abolito – anche se nessuno spiega loro che se l’Australia smette di esportare carbone e minerali, qualcun altro colmerà il vuoto nel mercato, i cambiamenti climatici non saranno per niente scongiurati, e la dolcevita della lucky country sarà’ stroncata assieme al welfare e alle pensioni d’oro e alla sanità e a tutte le conquiste sociali di cui il paese e’ fiero. E’ stato esattamente questo l’aspro dibattito sulla "carbon tax". Il governo laburista, sotto la pressione feroce dei Verdi, aveva introdotto una tassa che colpiva le aziende australiane sulla base delle emissioni che contribuiscono all’effetto serra. L’obiettivo era quello di costringere l’economia a limitare progressivamente l’impatto sui cambiamenti climatici.

 

Tutto buono e nobile. Il problema però è che l’Australia non vive in un universo proprio. Con tale politica, l’economia nazionale soffriva di un grave svantaggio economico a livello globale, e in mancanza di un accordo universale per la riduzione dei gas serra, l’effetto reale sui cambiamento climatici sarebbe comunque pressoché nullo. Ma i media e i politici di sinistra, in Australia, questo non lo hanno mai spiegato. E forse non lo sanno nemmeno. La loro crociata e’ genuina, frutto di una ideologia granitica e ispirata. Ma fallace, e perniciosa. Tony Abbott pareva saperlo. Per questo ha abolito la carbon Tax come primo provvedimento del suo governo. E da quel momento, quello che era un uomo inviso ai suoi avversari, e’ diventato il diavolo.

 

L’altra grave questione che il governo di Abbott ha dovuto affrontare e’ quella dei rifugiati. L’Australia, in una regione di povertà e conflitto, e’ la terra promessa per molti. E anche qui come attorno all’Europa, per anni il crudele business dei trafficanti di esseri umani e’ fiorito e ha prosperato, grazie alle barche fatiscenti gettate in mare dal Sud est asiatico alla volta dell’Australia. Un’emergenza nazionale che Tony Abbott ha non solo affrontato, ma risolto. Certo, risolvere una simile questione e’ una faccenda brutta. Significa negare a milioni di persone l’illusione dell’eldorado. Significa chiudere la porta in faccia a chi ha bisogno. Significa esporsi all’accusa di indifferenza e cinismo. Ci vuole coraggio e ci vuole fermezza. E Abbott ha avuto, e rivendicato, entrambi. Lo ha fatto con l’unica politica sensata in questo campo- la guerra ai trafficanti e l’assoluta interdizione degli sbarchi. Ciò ha salvato l’Australia dalle scene tragiche e disperate di un’Europa impotente e incapace. Le premesse erano uguali. La minaccia la stessa. La politica diversa. Il risultato opposto. Gli australiani, però, si sono lasciati irretire dalle sirene bugiarde della carità. Il governo e’ stato dipinto come un manipolo di cinici perversi che hanno incarcerato i bambini e calpestato il diritto internazionale e i diritti umani. E il fiume di disprezzo che e’ sgorgato dalle sorgenti più pure dell’innocenza australiana si è riversato tutto verso una persona. Il primo ministro. Bersaglio comodo e facile, odiato dagli avversari, ridicolizzato dalla stampa, disprezzato dall’opinione pubblica.

 

E così Tony Abbott ha perso. Scaricato da alcuni dei suoi più stretti collaboratori sulla scia degli exit poll negativi, l’uomo che prometteva di cambiare l’Australia e traghettarla in un’ennesima era di benessere e felicità ha avuto a malapena il tempo di iniziare. Non ha fatto in tempo nemmeno ad abitare nella residenza ufficiale, che era in restauro e soltanto adesso, ironicamente, e’ pronta ad accogliere di nuovo un primo ministro.

 

Sui meriti del governo Abbott e’ difficile discutere, il tempo e’ stato troppo breve per poter delineare una prospettiva politica complessiva e mettere in atto un programma vasto e nel mezzo di una congiuntura internazionale così fragile, e imprevedibile più che mai. Su una cosa, però, si può trarre una conclusione. Con la defenestrazione di Tony Abbott orchestrata dai collegi di partito e non sancita da alcun voto popolare, l’Australia vede il consolidamento di una prassi che era già apparsa durante il precedente governo laburista. E’ la prassi del colpo di palazzo, che tradisce lo spirito e la dignità della democrazia, ne indebolisce le colonne portanti, e ne aliena una popolazione già esposta a una stampa mediocre e a una politica che difficilmente riesce a guardare al di la della parrocchia locale. Il giorno dopo la caduta di Abbott, il giovane in giacca a cravatta in attesa della metropolitana leggeva un quotidiano a larga circolazione. Sulla prima pagina campeggiava lo sport. L’Australia aveva appena cambiato un governo, deposto un primo ministro, stravolto per la seconda volta le regole della selezione del potere. E il giornale iniziava con lo sport.

 

Forse e’ stato questo il crimine di Abbott. Quello di aver visto più in la’ della parrocchia – in senso metaforico però, lui che alla parrocchia reale era ligio al punto di sfidare il paese intero su questioni di costume sociale come le nozze gay, altra spina nel fianco e miccia per le polveri dell’impopolarità  – e di essersi ritrovato vox clamans in deserto.

 

E’ stato la Cassandra d’Australia, profeta di sventure possibili, ma indigeste. Il respiro internazionale della sua visione gli ha tolto ossigeno in una patria per cui il mondo ancora e’ altrove, troppo lontano e troppo poco rilevante, poco conosciuto e cui i compatrioti guardano con un misto di fascinazione e compassione, come i privilegiati dei quartieri ricchi guarderebbero alle favelas oltre i campi da golf e i cancelli del loro universo separato. E’ stato, anche, un uomo di principio, in un paese volubile, molto laico, e molto irriverente. La comunicazione ne ha sofferto, certo. Chi crede fermamente di fare la cosa giusta, talvolta non si preoccupa abbastanza di saperla anche spiegare. E così Abbott ha perso la guerra della comunicazione, senza appello.

 

Il suo addio, però – quando le spade sono tornate nelle guaine, i coltelli nelle tasche, e quando e’ scemato il clamore dell’ultimo sfregio collettivo espresso da tweets derisori, vignette satiriche, commenti abrasivi, e da pagine di Facebook che annunciavano grandi feste per celebrare la caduta del tiranno – forse meglio di qualunque incerto e prematuro bilancio politico dice l’ultima parola sulla persona Tony Abbott. Senza polemiche, vendette o vittimismo, l’ex primo ministro si e’ detto onorato di essere arrivato a guidare il suo paese, che ama profondamente, e di essere fiero di ciò che ha fatto come primo ministro. Umiltà, senso del dovere, e principi saldi. Forse non sapremo mai se Tony Abbott sarebbe stato un buon primo ministro. Di certo era una brava persona. E l’Australia, che festeggia divertita queste infauste idi di marzo, nemmeno si è accorta che il nuovo re e’ salito al trono calpestandone la legge, e il diritto. (Seconda puntata, fine)