Con “Generazione Italia” Fini strizza l’occhio agli anti-berlusconiani

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Con “Generazione Italia” Fini strizza l’occhio agli anti-berlusconiani

Con “Generazione Italia” Fini strizza l’occhio agli anti-berlusconiani

17 Marzo 2010

Gianfranco Fini è un tattico consumato. Sa fare solo questo: tattica. In questo senso, ha ragione Giancarlo Loquenzi: Fini sa fare politica. Perché, ad oggi, abbiamo visto solo tattica.

L’ultima grande idea di Italia e – mi permetto di ricordare – di Occidente risale al 1994, dopodiché tutto si è spalmato – seppur a tratti con sparigliamenti e produzioni culturali davvero suggestivi – sul tavolo della prima ora. Ma il presente non è solo presente. FareFuturo non riesce a leggere la realtà di Wilders in Olanda, ma neppure quella della Lega di Bossi, perché non ha chiaro un concetto decisivo: il presente è storia. E’ dal presente che nascono i progetti e il futuro non viene conquistato nella retorica da fumatori di oppio nella sala d’attesa di un aereoporto, intenti a guardare a quel che fanno e al prossimo aereo da afferrare al volo: la realtà è più avanti. Sempre. Ecco perché Fare Futuro con il suo costruttivismo politicistico e un tantino neogiacobino non ha funzionato. Ha stancato anche Fini.

Loquenzi lo scrive e becca il punto anche in questo caso. Certo è, tuttavia, che la partita finiana non potrà essere giocata solo all’interno del Pdl. Il nodo di tutta la vicenda finiana è poi, alla fine, questo. Non è un’assoluta novità, perché Fini ha sempre voluto superare il neofascismo con un post-fascismo civile e repubblicano, aperto alla società civile ed alle istanze neocorporative necessarie a riequilibrare i dinamismi occidentali della stessa con una buona base elettorale, quella di sempre, il suo zoccolo duro. I fallimenti finiani consistono proprio in questo velleitarismo e, dopo FareFuturo (che – confesso – prevedo riciclata in una specie di salsa pop-politica), le cose non andranno diversamente. Non è una gufata, ma, in politica, due più due fa ancora quattro.

Fini è troppo “loico” e, paradossalmente, troppo impolitico nel suo politicismo tatticistico esasperato. Perché, da un lato, sembra aver calcolato tutto, anche il ritiro di Berlusconi (il “loico” si appella al whishful thinking, si sa); ma, dall’altro, gioca di rimessa e cerca di portarsi avanti nel lavoro sporco che gli toccherà fare, se vorrà guadagnare posizioni e – soprattutto – voti. Loquenzi auspica un Fini meno inclusivo. Io credo, invece, che la sua inclusività posticcia e studiata a tavolino sia la coda del diavolo che spinge l’impolitico tattico verso il nulla.

E questo nulla è la deriva della crisi sistemica che stiamo attraversando. Senza interlocutori politici, perché, a sinistra, non c’è nessuno e D’Alema a Italiani europei fanno rappresentanza della UE nelle istituzioni, fermi al motto dalemiano: “In Europa a sinistra solo socialisti…”, capirai…; a destra, Fini non vuole nessuno. La democrazia interna al MSI era oscillante tra gli schiaffi di Masaniello ai gendarmi e il ducismo in salsa pop, ergo oggi, con il suo gruppo, siamo alla poltiglia. Poltiglia tattica e ben predisposta alla pugna, ma, alla fine, poca lana, come si dice a casa mia. Fini, però,  sa bene come sparigliare le carte e logorare l’avversario. L’avversario è – non da oggi – Silvio Berlusconi. Certo, né Fini, né Bocchino diranno mai che “Generazione Italia” nasca contro il leader del Pdl, ma le cose stanno così. Tant’è vero che il progetto si fonda sul riconoscimento di fatto della leadership di Fini. La storia della doppia leadership se le beve soltanto chi vuole contare i propri voti anche dopo il 2011. Non scherziamo.

Gli obiettivi finiani sono chiari, bene, di ciò gli diamo atto, e, si sa, gli obiettivi, in politica, pesano più delle parole. Diciamola tutta: è la cronaca di un pesce d’aprile annunciato. La chiesa berlusconiana ha, dunque, ufficialmente il suo eretico, il suo Lutero. E, come Lutero, il Presidente della Camera, può dire: "Sono pronto a ritrattare se mi si convince con ragionamenti basati sulla Scrittura. Altrimenti io qui sto e di qui non mi muovo”. Una singolare intransigenza. Fa anche un po’ ridere. A babbo morto, non ci siamo. La cosa puzza.

Lo scriviamo da mesi che la cosa puzzi e che Berlusconi debba mettersi in testa di avanzare centimetro dopo centimetro nella politica italiana, possibilmente con un più alto senso del conflitto di natura schmittiana, se ci è consentito esagerare in una bella giornata marzolina che fa presagire una buona Pasqua. Ciò sia detto tra parentesi. Tornando a bomba su Fini, andiamo a sfruculiare un po’ di dati e fatti testardi, di quelli che si buttano giù male, i più preziosi. Allora, la realtà dei fatti prova che An abbia usato le risorse del Pdl – la chiesa berlusconiana, appunto – per costruire la sua eresia. Fini ha smentito, perché non c’è eresia, a suo dire, in una politica senza ortodossia. Ma i fatti dicono viepiù che l’eretico nasce – nel più volgare consesso politico – come cavallo di Troia o serpe in seno.

Il Presidente della Camera non vuole soltanto un nuovo partito – qui precisiamo bene e Loquenzi pensa ancora a un Fini politicamente compreso nel ruolo di post-Berlusconi, e basta, no, non è così -; egli cerca soprattutto legittimazioni a prova di bomba nel mondo trasversale e antiberlusconiano dei salotti finanziari, delle banche, della Confindustria. Un modo antipolitico di creare politica al di fuori del recinto berlusconiano. Va bene per il “loico” impolitico e malato di tattica. Se questa è una parte di eresia – per stemperare un po’ i toni -, bè, allora diciamo pure che le eresie hanno sempre la loro storia.

Qui la storia ha nomi e cognomi, tira in ballo beni, buoni e bonifici; è truculento dirlo, ma così è, almeno se i fatti conducono a tirare certe conseguenze: sono in ballo interessi di gruppo e affari meno commendevoli. Non si tratta di deglutire il Fini eretico come sbobba affaristica, non è questo; ma è chiaro che i suoi colonnelli siano ormai un ceto politico e che lui abbia fatto di tutto per accontentare i suoi, Rai docet. Ma, per capire tutto ciò, dobbiamo fare un passo indietro. Cos’era An prima dell’ingresso nel Pdl? Ebbene, An, prima di entrare nel Pdl, era ridotta al lumicino. Poca cosa. Fini aveva fatto il duro, ma prima di guardare i sondaggi che i suoi colonnelli gli hanno messo di fronte. “Capo, qui si mette male, siamo alla frutta, meglio intrupparsi, poi si vedrà”. Un partito messo peggio del PSI prima dell’avvento di Craxi.

Qualcuno, dunque, deve aver detto al Lutero post-fascista che la chiesa berlusconiana, in fondo, conviene. Strategia di risulta: si entra nel corpo politico e lo si sfascia dall’interno; ma, intanto, si beccano le poltrone, si piazzano gli uomini dove si può e si gode della ben nota generosità del Capo, da sempre un principe del Rinascimento adùso ad integrare anziché combattere. Insomma, un buon affare. La sede del partito – ex Forza Italia – viene occupata manu militari, anteprima dell’occupazione prossima ventura. Dopodiché fuoco a volontà – fuoco amico –, con cariche non a salve, su tutto: immigrazione, economia, strategia del partito, laicità. Tutto sotto tiro con un discorso pubblico volto a smarcarsi dal Capo e dalla cultura politica del centrodestra. L’esito è debole e imbarazzante. La montagna partorisce il topolino.

Ma, intanto, la storia viene manipolata a dovere e tutto serve alla manovra dell’eretico post-fascista. Proprio la memoria post-fascista è azzerata. An è un incidente di percorso. Berlusconi non esiste più. La storia del centrodestra è fuffa. Esiste soltanto Fini e la sua truppa di colonnelli progressisti ma non troppo, come ha acutamente osservato Feltri. Dopo il “ma-anchismo” abbiamo il “nontroppismo”. Il pop al governo. La retorica del “post” non nasce dal nulla, tutto sommato, ha un’origine precisa; è un prodotto del marketing veltroniano, insieme alla  “bella politica”, la colla del nulla spalmata sulla superficie liscia del quotidiano. Non basta. Si inventa perfino la “destra nuova” e si dice che non ha nulla a che fare con la “nuova destra” di Alain de Benoist. Da quelle parti c’è ancora troppo Evola e anti-modernità, qui si deve sbaraccare tutto. Tutto dimenticato, si va oltre. “Oltre” è la parola d’ordine. Tutti vogliono andare oltre e gridare come Chatwin: “Ma che ci faccio qui’”, non accorgendosi che la realtà è storia e, dunque, non si esce da essa. Chi esce dalla realtà ha un nome: matto.

Si supera la propria storia attraverso lente rimeditazioni e nuove prospettive maturate con l’umiltà dello studio e dell’ascolto. Fini è ancora padre di una legge che porta il suo nome insieme a quello di Bossi e spara addosso alla Lega chiamandoli “stronzi”, mentre, con la mano sinistra, nega la firma e si nega alle repliche e spiegazioni pubbliche. Così può agire il pizzicagnolo quando cambia bottega e si sposta da Tor Pignattara al Testaccio, ma non il leader di un partito già di per sé condannato al “senno del post”, in quanto neofascista. “FareFuturo” ha alimentato la credenza in questo Nirvana politico, ma ora il giocattolino si è rotto e tutto ciò non basta più; perché il futuro è un’ipotesi e ora, invece, ci vuole una realtà. Inventare qualcosa di nuovo in un mondo brutalizzato dal nuovismo è fin troppo facile, solo che la politica è affare più complesso e non può essere appaltato dalle fondazioni dei progressisti ma non troppo. Fini lo sa bene e, infatti, decide di gestire l’operazione con lo spirito dell’avanguardista permanente. Non importa il classico “che fare”, né il “come fare”. Conta la movida permanente, il postmoderno liquido e dominato dal “senno del post”: avanzare nel nulla è l’unica tattica possibile. Una tattica che ben si attaglia al parassitismo politico, un modo di essere che il ceto politico di An ha fatto suo fin dalla nascita.

“Generazione Italia”, allora, non è la nascita di una corrente, perché le correnti vogliono fare politica in un partito, anzi, per certi versi, lo legittimano ancora di più. E non è neppure un movimento per aprire un dibattito all’interno del Pdl, perché ormai tutti hanno capito il gioco di Fini. Qui c’è un cambio di marcia: l’alleanza del nichilismo politico dei post-fascisti con l’avventurismo parassitario dei salotti buoni e della Confindustria. Una vecchia storia con risultati elettorali da prefisso telefonico. Ma, attenzione, prima di arrivare alle urne si deve passare per le banche. La crisi si può governare insieme al governo o alleandosi con le banche e la Confindustria. Fini vuole fare il trans (-Berlusconi) senza essere ancora post (-Berlusconi). Ecco cosa accade a chi esce fuori dal proprio Sé: i desideri non sono più volani, ma diavoli all’attacco della ragione.

E Berlusconi, in tutto ciò? Una cosa è certa: non gli basterà lo spariglio dei Promotori della Libertà. Che poi vale zero come politica. Ci vuole, a urne chiuse, un congresso come si deve, con la gente che vota e la politica che pesa. Ci vuole il sangue e il conflitto, la resa dei conti e la messa all’angolo dell’eretico, ma con le regole della politica. O dentro o fuori, ma non disteso a succhiare il sangue dalle mammelle della chiesa che ti ha accolto. Chi fa movida, in realtà, fa ammuina per non contarsi. Questa debolezza strutturale deve fare la forza della politica. Berlusconi non ama il conflitto belluino, ma con esso si decide del futuro di un partito e si tracciano le linee di una nuova storia. Imparasse da Craxi, che non cedeva un millimetro all’oppositore, ma, nello stesso tempo, sapeva già da quale parte andare. Chi gioca con l’idea di generazione non ha alcuna idea della storia. Ma chi può – e Berlusconi può – deve fare. E senza menare il can per l’aia.