Con la crisi la politica della Germania sta mutando. E’ tempo di farci i conti
21 Gennaio 2012
La crisi economica che sta scuotendo tutto l’Occidente è destinata a lasciare un profondo segno sulle nostre società e sulla distribuzione e forme del potere internazionale. Ancora non si vedono i risultati, ma lo scontro in atto è formidabile e non si deve credere che sia un processo lineare e coerente. Ogni “schieramento” presenta diversi attori, interpretazioni, visioni del mondo.
Incominciamo con una lettura delle mosse della Germania il cui comportamento spesso è letto attraverso toni moralistici da cui viene fuori un paese egoistico o irresponsabile, ma senza una politica razionale. Limes ha dedicato il fascicolo di settembre 2011 all’analisi delle mosse di Berlino; molti i saggi utili, ma per capirci qualcosa nel guazzabuglio dobbiamo iniziare con alcuni semplici considerazioni – in inglese è utilissimo il sito del German Council of Foreign Relations che cura anche una rivista on line sempre in inglese.
La Germania vive in una realtà di contraddizioni frutto della storia; è il paese con più abitanti e con l’economia più forte d’Europa, collocata in una posizione geografica centrale ma, al contrario di Francia e Gran Bretagna, non dispone di un seggio al Consiglio di Sicurezza all’ONU né di armi nucleari. Quindi tutta la sua enorme forza deriva dal peso economico e sociale, ma si comporta in un modo che i suoi alleati stentano a capire; tutto ruota intono alla domanda “Che cosa vuole Berlino? Sta sfuggendo alle sue responsabilità di leader europeo? Oppure sta aspettando che la mela stia per cascare dall’albero per raccogliere i frutti a prezzi da saldo? O non capisce, per limiti culturali, eredità del famoso passato che non passa, quello che sta succedendo?
Interprete di quest’ultima posizione è il filosofo e sociologo tedesco, erede della scuola di Francoforte, Junger Habermas che in un articolo dello scorso giugno per il "Guardian" avvertiva l’opinione pubblica internazionale sui rischi di scarsa consapevolezza delle elite tedesche e infatti l’articolo si intitolava “La mentalità tedesca è diventata solipsistica”. In pratica, l’immobilità tedesca non sarebbe altro che il risultato di due elementi costituenti la Weltanschaung tedesca post seconda guerra mondiale, composta da desiderio di normalità e nazionalismo che si traduce in un’indifferenza per i destini condivisi dell’Europa (esiste anche una versione più completa delle sue tesi).
Fino a quando la Germania era divisa in due, fino al fatidico 9 novembre del 1989, la politica estera della Germania era chiara e con pochissimi margini di manovra, ma ben gestiti: baluardo militare dell’Occidente, vetrina del capitalismo, motore centrale dell’integrazione europea in tandem con la Francia però con ottime aperture verso Est, si ricordi l’Oestpolitik di Brandt (in realtà l’architetto di tutta l’operazione di apertura fu Karl-Heinz Bahr, famoso e influente leader socialdemocratico segretario di Brandt, ministro dell’economia con Schmidt) che firmò il primo trattato con Mosca nel 1970, atto che gli frutterà il premio Nobel l’anno successivo.
Dopo la caduta del muro, tutto cambia. L’ex Reich si ritrova in una posizione centrale, forza sulla riunificazione i recalcitranti alleati con Mitterand in testa, spinge in una strada di secessione Slovenia e Croazia, paesi ruotanti nella sua sfera, riducendo così Jugoslavia, erede di Tito, ad uno stato fallito; paga obtorto collo il prezzo dell’Euro, ma dettando le sue condizioni, cioè ottenendo una Banca Centrale a Francoforte, disegnata a sua immagine e somiglianza, e un cambio dell’Euro uguale al marco, valore assurdo per il resto dei paesi europei.
A tappe forzate il ruolo internazionale della Germania si delinea sempre più chiaramente, anche se non in modo dichiarato, teorizzato o formalizzato seguendo con forti scarti i binari culturali identitari del recente passato. Hans Kundani, in un articolo su Washington Quarterly dell’estate scorsa, disponibile on line e pubblicato in quel numero di Limes, sostiene la tesi che Berlino dalla seconda guerra mondiale ha sviluppato la sua azione e costruito la propria immagine come “una ‘potenza civile’ che, diversamente da una grande potenza, utilizza le istituzioni multilaterali e la cooperazione economica per raggiungere i suoi obiettivi di politica estera , evita l’impiego della forza militare, se non in casi limitati e in un contesto multilaterale, e contribuisce in tal modo a ‘civilizzare’ le relazioni fra gli stati rafforzando le norme internazionali”.
D’altronde questa era una strada costretta sulla quale si era mossa anche l’altra potenza sconfitta, il Giappone che ha costruito tutta la sua forza internazionale sull’economia, riponendo in soffitta il suo militarismo. Nel caso della Germania però questa scelta è avvenuta nel solco di una tradizione di pensiero che sempre ha trovato spazio nella cultura tedesca, basti pensare al mercantilsmo di Friedrich List (1789-1846), autore di Das nationale System der politischen Ökonomie che può essere considerato uno degli ispiratori della politica della futura nascente Germania.
Quindi sembrerebbe che niente è cambiato nelle direttrici di guida della politica estera tedesca: la forza economica come espressione della potenza politica, l’economia al posto della politica con la geoeconomia che sostituisce la geopolitica, dando ragione a Luttwack che in un celebre articolo del 1990 su National Interest (ma in inglese è possibile leggerlo in una splendida antologia di geopolitica) segnalava il mutamento, con tutte le dovute cautele, di paradigma di comportamento, per lo meno nelle relazioni tra i paesi appartenenti al primo mondo o post moderni.
Invece dalla fine della guerra fredda – questa la tesi di Kundani – è venuto meno il multilateralismo, una delle stelle polari della politica di Berlino. Basti pensare al rifiuto di approvare nello scorso Marzo la risoluzione 1973 dell’ONU sulla guerra di Libia, la posizione rispetto alla guerra in Irak, la politica energetica che vede nella Russia il partner principale, alla volontà dichiarata pubblicamente di ridiscutere i siti delle armi nucleari americane sul suolo tedesco. Tutti elementi che denotano un cambiamento di rotta profondo nelle azioni del governo tedesco.
Questa è la tesi espressa con forza da molti osservatori americani; per esempio Bruce Stokes, uno dei più quotati studiosi di questioni transatlantiche, in una testimonianza davanti alla commissione estera del Senato statunitense del 2 novembre 2011 dedicata alla crisi del debito europeo e alle sue implicazioni strategiche sui rapporti tra le due sponde dell’Oceano, osservava che la crisi economica europea mette in discussione la sicurezza degli stessi Stati Uniti che tutto vogliono meno che un’Europa in balia del caos o a completa trazione tedesca.
In realtà le relazioni tra le due sponde dell’Oceano, sono complesse e riguardano aspetti molteplici. I rapporti tra le due monete, le politiche energetiche, la relazione quindi con la Russia, la politica di sicurezza e il budget destinato ad essa; tutti punti sui quali non c’è perfetto accordo a partire proprio dall’ultimo. Gi Usa in pratica chiedono agli alleati di spendere qualcosa in più del misero, per esempio, 1,3 per cento del prodotto lordo tedesco alla difesa contro il loro 4,8 per cento.
Questo è sicuramente un tema che qualsiasi discorso a proposito della sovranità europea deve tener presente, ma come ricordavano tra gli altri Geminello Alvi, Gotti Tedeschi e Francesco Forte anche sulle pagine dell’Occidentale, la crisi è partita dalla bolla immobiliare nel mercato americano, da una politica economica perversa basata sull’indebitamento folle delle famiglie e sulla vendita del debito pubblico al resto del mondo in primo luogo alla Cina. E questo la Germania lo sa bene e stiamo certi che tutto voglia fare, meno che pagare per colpe non sue. Certo non saranno secondarie le modalità con cui tutto questo avverrà.
Per finire, segnaliamo una lettura per il fine settimana. Un estratto, anticipazione del nuovo libro “The World America Made” di Robert Kagan sul ruolo futuro degli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti sono una potenza veramente in declino? O invece gli americani stanno commettendo un cero e proprio suicidio scambiando le proprie percezioni con la realtà con il risultato di produrre proprio il risultato non voluto?”