Con la mega-manovra Tremonti apre la strada a un nuovo mondo universitario

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Con la mega-manovra Tremonti apre la strada a un nuovo mondo universitario

30 Luglio 2008

Un tassello fondamentale della manovra triennale è l’intervento sulle università, attraverso il quale si concede a queste ultime la facoltà di trasformarsi in fondazioni 

Nei giorni scorsi è stato lo stesso Giulio Tremonti a ribadirne la rilevanza ai vari intervistatori – vedi l’intervista al Foglio della scorsa settimana. Perché tanta enfasi? Per capire e apprezzare la portata di questa mossa, è necessaria una premessa iniziale. 

Alla base dell’investimento in educazione e ricerca c’è infatti un (ottimistico) assioma: più si investe sulla dotazione cognitiva di un individuo e meno questi avrà bisogno nel futuro di tutele assistenziali dirette ed indirette. Questa relazione inversa può essere ulteriormente precisata: se investo in capitale umano, dopo un certo tempo otterrò (i) incremento della produttività, (ii) crescita non inflazionistica e (iii) maggiore occupazione. 

Il triplice incremento sarà maggiore o minore in base alla forma del mercato: se liberalizzato, più che proporzionale, se chiuso e statalizzato, meno che proporzionale. Così stando le cose, è evidente che politica educativa, welfare e mercato sono strettamente connessi tra loro. 

Di qui la domanda cardinale: l’attuale impianto universitario di casa nostra è adeguato per munire gli i giovani di un autentico patrimonio cognitivo? La risposta che il nuovo governo offre a questo interrogativo è negativa. Il sistema universitario italiano appare arretrato rispetto a quello di altri Paesi. Si tratta di una arretratezza che spesso non deriva dalla qualità del personale docente, ma dalla pesantezza della macchina amministrativa, dalla sua autoreferenzialità, dalla scarsità di rapporto e sinergia con soggetti esterni. 

La scelta di dare alle nostre università la facoltà (non l’obbligo, si noti bene) di trasformarsi in fondazioni consente l’introduzione di meccanismi che già esistono all’estero. La Wirtschaftswoche tedesca ha di recente encomiato la Goethe Universitaet di Francoforte per la sua abilità nel “dragare” fondi tra ex-allievi, imprese, banche, e così via. Poca cosa rispetto a quanto avviene già da tempo nel mondo anglosassone, dove spesso a essere finanziate dai mecenati di turno sono le singole cattedre (es.: cattedra Lehman Brothers per il private equity). 

I vantaggi nel rilancio della qualità della ricerca sarebbero indubbi. L’elasticità ed efficienza della gestione diventerebbe un risultato operativo immediato, visto che è proprio l’eccessivo peso burocratico ad ostacolare lo sviluppo della ricerca.

Tanto per rendere l’idea, queste colonne rilevano che la trasformazione in fondazioni – non obbligatoria – potrebbe contribuire a portare ordine nei conti disastrati delle università di casa nostra. Non più tardi di ieri, un lungo articolo del Sole (Gianni Trovati, “Università a rischio dissesto”,28 luglio 2008, p. 5) stilava un lungo elenco di doglianze: Napoli Orientale, Firenze e Trieste capofila di una ridda di atenei dai bilanci sottosopra. Il 30% delle Università di casa nostra ha squilibri di bilancio, fanno spavento soprattutto i costi del personale, legati anche alle cicliche moltiplicazioni di cattedre di italica tradizione. 

Si favorirebbe poi l’incremento dell’autonomia delle Università (individuato piuttosto nitidamente dall’art. 33 della Costituzione) e quella maggiore interazione con la società civile ed il mondo produttivo che appare oggi come un imprescindibile elemento di dinamicità e di sviluppo del sistema.

La sinergia fra università e impresa può costituire per davvero la combinazione per vincere la sfida dell’innovazione. Dopodichè, detto tutto ciò, se qualche università non intende aderire all’opzione, ben venga. Ma non per questo si può impedire a chi invece ha le capacità e la volontà di dialogo con il “mondo esterno” di coglierne le occasioni.