Con la riforma della giustizia si punta alla vera autonomia dei magistrati

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Con la riforma della giustizia si punta alla vera autonomia dei magistrati

15 Marzo 2011

Sostiene Calamandrei: "Il pericolo nuovo che incombe sulla giustizia è la politicizzazione dei giudici. Il magistrato che scambia il suo seggio con un palco da comizio cessa di essere magistrato".

Non è mia intenzione strumentalizzare il ‘Calamandrei-pensiero’ del 1921 (in una prolusione all’Università di Siena) alle "feste di piazza" di questi ultimi giorni. La frase, semmai, si presta per essere collocata nel quadro generale del progetto di riforma costituzionale presentato dal Guardasigilli, che vuole innovare il testo della Costituzione nella parte relativa all’organizzazione della Giustizia. Infatti, l’obiettivo di fondo è quello di "spoliticizzare" il magistrato, distinguendo, fin dal momento genetico dell’accesso alla carriera, il giudice dal pubblico ministero. E’ noto che questa confusione e sovrapposizione di ruoli è un’anomalia tutta italiana, laddove negli ordinamenti di democrazia liberale non è prevista. Anzi: negli altri sistemi giuridici il pm è subordinato al ministro della giustizia.

Quindi, partiamo da qui: la separazione delle carriere tra magistrato requirente e giudicante, che è prevista nel progetto di riforma costituzionale, è una scelta comunque minore rispetto a quanto avviene in altri ordinamenti. Ci si è preoccupati, innanzitutto e soprattutto, di dividere i ruoli, operando, in tal senso, un’ulteriore separazione del potere in una logica montesqueviana. Ovvero: se il potere giudiziario, ma piuttosto di "ordine" si tratta, prevede al suo interno la convivenza, anzi la intercambiabilità, fra chi accusa e chi giudica, il costituzionalismo liberale chiede e pretende che si mantengano distinti i due ruoli. Anche solo per non rimanere muti alla domanda: ma come può chi ha accusato (e si è formato alla pubblica accusa) sapere poi giudicare con imparzialità, indipendenza e giustizia?

Il progetto di riforma predisposto dal ministro Alfano corregge così un fenomeno di strabismo giudiziario. E quindi, due concorsi, due carriere: o giudice o pubblico ministero. Naturale conseguenza di ciò è poi la previsione, presente nella riforma, di due Consigli superiori della magistratura: uno per la magistratura giudicante, composto per metà da laici e togati (ma con un togato in più: il presidente della Corte di Cassazione) e presieduto dal Presidente della Repubblica; e uno per la magistratura requirente, anche esso composto per metà da laici e togati (ma con un togato in più: il procuratore generale della Corte di Cassazione) e presieduto dal Presidente della Repubblica. Con una Corte di disciplina della magistratura, distinta in due sezioni, che ha il compito di emanare i provvedimenti disciplinari sia per i giudici sia per i pubblici ministeri. Potrà non piacere, ma non si può certo dire che non è chiaro e geometrico nel suo disegno costituzionale.

Insomma: se il legislatore costituzionale del 1999 aveva riscritto l’articolo 111 della Costituzione (sotto dettatura della CEDU, per così dire), il legislatore della revisione costituzionale si propone di completare l’assetto del sistema giustizia. E quindi, se il nuovo articolo 111 aveva finalmente previsto il giusto processo penale con un giudice terzo, con un contradditorio e con la parità delle parti, oggi il progetto di riforma lo rende manifesto chiarendo chi sono le parti (pubblica accusa e difesa), come si svolge il contradditorio (tra pm e avvocati) e chi è terzo nel giudizio e fa giustizia (il giudice). Anche questo potrà non piacere, ma questo è il due process of law del liberalismo giuridico anglosassone.

Di altro si occupa il progetto di riforma. Mi limito a segnalare un comma aggiuntivo all’articolo 111 che recita: "Contro le sentenze di condanna è sempre ammesso l’appello, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge". Si costituzionalizza così un principio, quello della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, che era stato oggetto di disciplina legislativa (la cosiddetta legge Pecorella) ma era caduto sotto la scure della Corte costituzionale proprio perché non previsto in Costituzione. Anche qui, sul modello del sistema processuale anglosassone, si prevede che nel caso in cui un imputato sia stato dichiarato innocente in primo grado, il pubblico ministero non può ricorrere in appello avverso la decisione. Semmai si rivolgerà alla Cassazione, che potrà in tal modo essere veramente quello che Guido Calogero auspicava fosse ‘l’organo di controllo della logica del giudice e del suo giudicare’. L’aver sottratto al pubblico ministero la possibilità di appellarsi risponde a un aspetto processualmente rilevante, che è riassumibile nella seguente domanda: come fa un pubblico ministero a motivare un appello se non riesce a dimostrare al giudice di primo grado la fondatezza della sua accusa? Ha un senso replicare e quindi duplicare un processo, dal momento che un giudice si è pronunciato per l’innocenza di un imputato? Certo, se dovessero emergere nuove prove, ovvero nuove testimonianze, queste potranno essere fatte valere in Cassazione. Ancora: potrà non piacere, ma non si può negare che è un principio di civiltà giuridica.

Concludo con un aneddoto raccontato da Flaiano: "Ai primi di novembre [1922], la statua della Giustizia, che troneggiava nel lunotto del Palazzaccio, verso il fiume, perdette il suo principale attributo: la bilancia. Era di ferro e di travertino. Questa bilancia precipitò, mancando di poco un avvocato, e i cocci rimasero sulla scalinata, ma neanche questo segno destò eccessive preoccupazioni. Dalle finestre del collegio in cui alloggiavo, potetti vedere nei mesi seguenti che il guasto fu riparato; ma al posto della bilancia i restauratori misero, tra le mani della Giustizia, una spada, la cui punta poggiava per maggior sicurezza sulla trabeazione. E’ ancora lì. Della bilancia si perdette presto il ricordo".

Ebbene, mi sembra di potere dire che il progetto di riforma costituzionale del ministro Alfano intenda – per insistere nell’aneddoto – costruire una nuova statua della Giustizia, distinta e distante dalla prima, con la bilancia tra le mani e sotto la scritta: "I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge".