Con Mussi l’università italiana è ultima in Europa
03 Novembre 2007
Proprio
su queste pagine, sei mesi fa (18 aprile), avevo condannato la gestione
burocratico-centralista del ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio
Mussi, da cui, a un anno dall’insediamento, non avevamo avuto altro che
congelamenti, rinvii e inadempienze sia a livello di università che di
Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Quel poco tempo che il ministro era
riuscito a distogliere dalle nuove scissioni comuniste e postcomuniste (leggi
Partito Democratico e Cosa Rossa), era confluito in una serie di iniziative di
basso profilo, tutte di stampo iperburocratico (riordinamento dei corsi di
laurea, delle lauree triennali e delle lauree magistrali, rimodulazione degli
ordinamenti didattici) nonché populista (un maxi-concorso per ricercatori
talmente complicato che non è mai riuscito nemmeno a partire, e una drastica
riduzione dei settori scientifico-disciplinari). Avevamo sostenuto in
quell’occasione che in un sistema universitario moderno, che si fondi davvero
sull’autonomia delle sedi universitarie (nonché sull’abolizione del valore
legale del titolo di studio), nessuna delle “riformine” targate Mussi
avrebbe ragione di esistere, perché corsi di laurea, tabelle, e settori
scientifico-disciplinari andrebbero semplicemente aboliti, così come, in ultima
analisi, andrebbe abolito lo stesso ministero dell’Università e della Ricerca.
Negli
ultimi sei mesi non è cambiato niente. La gestione Mussi ha continuato
imperterrita sulla stessa strada della burocratizzazione forzata, della
iperregolamentazione selvaggia e del rinvio programmatico. (Per dirne soltanto
una, e non delle meno importanti, il CNR è da mesi senza presidente). In
pratica, non soltanto non è successo niente di sostanziale, ma alla ripresa
d’autunno università, facoltà, corsi di laurea e dipartimenti hanno
ricominciato a impegnare le loro forze per riadattarsi, per l’ennesima volta,
alle nuove imposizioni ministeriali. Presidi, direttori di dipartimento e
presidenti di corsi di studio non fanno praticamente altro. I docenti, per
parte loro, si dividono tra coloro che per senso di responsabilità collettiva
seguono i loro superiori istituzionali su quella strada; e quelli che, come si
faceva a scuola per paura dell’interrogazione, si nascondono all’ultimo banco
per non essere coinvolti e fare invece il loro vero mestiere, che è quello di
leggere, scrivere, sperimentare, ricercare, insegnare – vale a dire, tramandare
la conoscenza umana e produrne di nuova.
Ma da
quanto tempo è che il ministro Mussi non visita un’università italiana, senza
scorta e senza codazzo di funzionari? Soprattutto, da quanto tempo è che il
ministro non mette piede in un’università di un paese avanzato? Non dico di
Stati Uniti o Canada, che sarebbe chiedere troppo, ma anche soltanto di Gran
Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Francia o Finlandia, per esempio, tutti paesi
che fanno parte dell’Unione Europea e con cui abbiamo in corso centinaia di
programmi Erasmus-Socrates? Non ho scelto questi paesi a caso. Si tratta di
paesi i cui rappresentanti hanno appena terminato a Londra i lavori di un
gruppo di studio (Forward Look) sullo stato della ricerca universitaria in
Europa (“Higher Education in Europe beyond 2010: Resolving Conflicting
Social and Economic Expectations”). In quello che è stato l’ultimo di sei
incontri, svoltisi nel corso di un anno e mezzo, si è discusso della funzione
dell’istituzione universitaria in una società basata sulla conoscenza; del
fatto che l’università “di massa” non ha diminuito le differenze
sociali né ha aumentato la mobilità verso l’alto; delle nuove forme di governance
richieste da un mondo universitario che si allontana sempre più
dall’assemblearismo elettivo (che è invece il sistema italiano); della
pluralità di comunità che ruotano intorno al mondo universitario, ne dipendono
e ne sono influenzate, spesso senza avere sostanziale voce in capitolo (per
esempio le autorità territoriali, l’industria, le professioni, gli stessi
dipendenti amministrativi). Tutti temi che, francamente, non ho mai sentito
dibattere nelle università italiane, che pure frequento da quarant’anni, mentre
sono stato letteralmente seppellito da documenti e concioni su crediti,
settori, tabelle e ordinamenti.
Aggiungo
che il gruppo di studio sullo stato della ricerca universitaria è stato per ora
interamente finanziato dalla European Science Foundation, un organismo europeo
di cui l’Italia, tramite il CNR, è uno dei più importanti contribuenti. Eppure
l’Italia, come oggetto di studio, non vi ha avuto parte. Mai menzionata dai
relatori, mai ricordata in un dibattito, mai da alcuno portata a esempio di
innovazioni, di esperimenti, o anche soltanto di tendenze. Non l’Italia dei
singoli studiosi, si badi bene. Due di loro, per esempio, erano stati
personalmente invitati in qualità di esperti a livello mondiale, Roberto
Moscati dell’Università di Milano-Bicocca e Michele Rostan dell’Università di
Pavia. L’Italia che non c’era era quella delle istituzioni e dei centri di
ricerca, l’Italia del ministero dell’Università e della Ricerca, l’Italia del
ministro Mussi. Invisibile. Inesistente. Zero. È esattamente il contrario di
quanto succede per paesi come la Finlandia, o i paesi scandinavi, o i Paesi
Bassi, i quali, con una popolazione ben più modesta di noi, ma con funzionari
ben preparati ed efficienti, e soprattutto ben motivati e ben sostenuti dai
loro governi, sono sempre in grado di portare a casa dall’Europa finanziamenti
e programmi che poi vanno a tutto vantaggio dei loro ricercatori, con una
ricaduta positiva, alla fine dei conti, per l’Unione Europea intera.
In
qualche modo, è la situazione che aveva a suo tempo segnalato su La
Repubblica Salvatore Settis, il rappresentante italiano al nuovo European
Research Council, l’organismo europeo il cui compito è finanziare la ricerca
“dal basso” avendo come unico parametro di valutazione l’eccellenza
della ricerca stessa. Una volta fatti i conti con la prima tornata di
finanziamenti assegnati ai “giovani
ricercatori” europei, Settis aveva notato che erano stati tanti gli
italiani vincitori (e dunque tanti gli italiani “bravi”), ma che
pochissimi di loro chiedevano di usare quei finanziamenti per condurre la loro
ricerca in una istituzione italiana; e pochissimi, aggiungeva Settis, gli
stranieri che chiedevano di venire in Italia. È quanto dimostra anche l’ultima
graduatoria pubblicata dal Times Higher Education, dove tra le duecento
migliori università del mondo compare soltanto “La Sapienza” di Roma,
al 197o posto; e il fatto che soltanto il 2 per cento degli
ex-liceali del mondo che scelgono un’università straniera vengono in Italia.
Certo,
il ministro Mussi divide le sue colpe con la schiera dei ministri che l’anno
preceduto negli ultimi quarant’anni, con la parziale eccezione del ministro
Letizia Moratti (la quale però ha di suo la responsabilità di non essere andata
a fondo nel cambiamento che aveva fatto sperare). Ma la fiducia illimitata e
pervicace del ministro Mussi nella bontà della burocratizzazione e della
iperregolamentazione, quasi si trattasse di un piano quinquennale di marca
sovietica (di cui purtroppo ormai conosciamo i costi e i risultati), non può
che farci sperare in un suo rapido pensionamento, che porti come conseguenza
quello dei consiglieri ministeriali di cui si circonda. Con una dirigenza così,
a livello europeo l’Italia dell’università e della ricerca non può che
perseverare nella sua condizione di invisibilità e di inesistenza.