Con Obama non cambia solo l’inquilino della Casa Bianca

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Con Obama non cambia solo l’inquilino della Casa Bianca

05 Novembre 2008

Barack Obama è il primo afroamericano a diventare Presidente degli Stati Uniti, il 44esimo uomo (e mai donna, prossima frontiera da varcare) della Casa Bianca che contribuisce ad abbattere un’altra barriera. Chi ama l’America non può che ammirare – ancora una volta – la grandezza di una democrazia pulsante, vitale, capace di rinnovarsi continuamente grazie a una formidabile Costituzione scritta nel 1787. 

La vittoria di Obama è netta. Il candidato democratico è riuscito dove altri avevano fallito: ha retto allo stress di una campagna elettorale lunghissima (e bellissima), ha reso competitivo il partito nei Red States, ha rotto il tabù del massiccio uso dei finanziamenti privati per la campagna elettorale, ha offerto una convincente immagine alla right-nation, ha usato i mezzi di comunicazione con bravura e astuzia, ha conquistato Camera e Senato e la maggioranza democratica nel Congresso ora è schiacciante. Obama è il leader del XXI Secolo, un prodotto dell’American Dream che in ogni era, anche la più buia, è una luce che non si spegne mai e sceglie di volta in volta chi illuminare sulla scena della storia. 

Il suo avversario, John McCain, le ha provate tutte per risalire la china di un’elezione (quasi) impossibile. A un certo punto, l’eroe del Vietnam, aveva trovato la chiave per vincere e si è ritrovato in testa alla corsa, ma la crisi finanziaria ha fatto tracimare la diga eretta dal candidato repubblicano. La Casa Bianca ha mal gestito l’intossicazione dei mercati con una serie di bailouts più che casuali e la folle scelta di lasciar fallire Lehman Brothers, il colpo di grazia per il sistema bancario, una ricetta sbagliata per Wall Street e letale per McCain.

Il discorso della vittoria di Obama ha toccato giustamente le corde del sentimento e dell’orgoglio. Ha avuto parole bellissime per il suo avversario, John McCain, e questo fa onore al neopresidente e a tutta la nazione americana da cui abbiamo ancora moltissimo da imparare. Non era quella di Chicago la sede per  parlare di programmi, non era la sera della vittoria il tempo giusto per illuminare il futuro, ma si è intuita la volontà di cambiamento dell’uomo che in gennaio prenderà le chiavi della Casa Bianca. Il "change" obamiano attende ancora di essere riempito di contenuti, ma l’agenda preme e vedremo presto se il Presidente è all’altezza dei compiti che lo attendono. 

Dispotismo della maggioranza. Il primo vero pericolo che dovrà affrontare è la naturale tendenza del potere a farsi dispotico. Nel suo caso, il sistema di check and balance è fortemente limitato proprio dal suo travolgente successo. Un dominio assoluto del Congresso va temperato da una solida autonomia del presidente dal partito di provenienza. Sarà Obama in grado di resistere alle pressioni dei Democratici? Sarà un presidente liberal o un moderato? E’ la domanda chiave che segnerà tutta la sua presidenza. 

Oval Office e Repubblicani. Il secondo punto riguarda la composizione del suo gabinetto. Obama viene direttamente dal Senato, difetta di esperienza e dovrà ascoltare consiglieri esperti per districarsi nel ginepraio di Washington. E’ probabile che come un suo illustre predecessore – John Fitzgerald Kennedy – chiami nel governo dei repubblicani o punti a una soluzione di continuità in alcuni delicati settori, primo fra tutti quello della Difesa. Kennedy chiamò al Pentagono il grande Robert McNamara e fu saggio, c’è chi pensa a una riconferma del segretario alla Difesa Robert Gates, ex direttore della Cia, regista del rinnovamento della Difesa che sta puntando su una nuova classe di generali four stars il cui capofila è David H. Petraeus, ma tenere in squadra un ministro chiave del second term di Bush non sarà facile. Se il programma politico di Obama è quello di riunire una nazione che durante l’era Bush si è ritrovata divisa, non potrà fare a meno di conversare nell’Oval Office con uomini che provengono da culture ed esperienze diverse. 

Leva Finanziaria e Redistributionist in Chief. La terza via lastricata di botole è quella dell’economia e della finanza. La storia degli Stati Uniti è una fionda il cui elastico spesso è tornato indietro nel protezionismo e nell’isolazionismo. Obama si ritroverà a gestire la crisi finanziaria di Wall Street, la recessione e qualche migliaio di miliardi del bailout architettato dal segretario del Tesoro Hank Paulson. La mano pubblica sull’economia è già calata in maniera sì necessaria, ma pesante. La tentazione immediata della Casa Bianca sarà quella di stringere i bulloni sulle banche, le imprese e i meccanismi regolatori del mercato. Con una leva finanziaria simile si può gestire meglio il consenso nel breve periodo, ma nel medio e lungo termine si rischia l’avvitamento del sistema che invece ha bisogno di fiducia per tornare a crescere. Regole più aspre come la Sarbanes Oxley, figlia dello scandalo Enron, hanno dimostrato tutta la loro inefficacia e servono da monito. Un Presidente saggio, dovrà trovare l’equilibrio tra il "redistributionist in chief" (battuta superba di John McCain) e l’uomo che ha sulle spalle i destini della nazione più potente e ricca del mondo. Si tratta di un punto delicato e urgente dell’agenda, tanto che Obama sta mettendo in pista per la prossima settimana una sorta di governo ombra del Tesoro per guidare la transizione senza troppi scossoni. Legato al tema dello sviluppo economico è il piano per una Green America. Obama punta a ridurre le emissioni di gas serra dell’80 per cento entro il 2050 e vuole fare dell’America il Paese principe sui temi del cambiamento climatico. E’ una grande sfida che il neopresidente lancia a un’Europa riluttante e divisa, burocratica e impaurita. Obama per convincerla dovrà condurre la Cina in piena rivoluzione industriale sul binario delle regole condivise. E non solo e sull’inquinamento ma anche e soprattutto nel commercio mondiale. La Cina però è il più grosso investitore in titoli del debito americano e il Presidente dovrà dimostrare una grande tenacia e indipendenza per raggiungere questo ambizioso obiettivo. 

Politica Estera e Grande Crisi. Il quarto punto – quello più delicato e ricco di insidie – riguarda la politica estera dell’era Obama. Su questo tema chi scrive ha sempre sostenuto la superiorità di John McCain che per esperienza e visione degli affari esteri è stato uno dei migliori candidati di sempre alla Casa Bianca. Il test di cui ingenuamente parlava il vicepresidente Joe Biden in campagna elettorale arriverà presto,  non ci sono dubbi. Il ritiro dall’Iraq, il ridisegno della strategia con gli alleati in Afghanistan, il dossier nucleare dell’Iran e il risveglio dell’Orso Russo non si curano dei sogni di "change". Sono minacce reali, inesorabili e rapide. Obama si confronterà con il mito del multilateralismo e l’inazione di un ente inutile come l’Onu. E’ a quel punto che vedremo il volto del vero Presidente. Ho già scritto sul mio blog che durante i periodi di crisi economica nascono e si riproducono rapidamente i virus più pericolosi per la stabilità internazionale. Durante la crisi del ’29, gli Stati Uniti distratti e ripiegati sui problemi gravissimi dell’economia, non diedero eccessivo peso all’invasione della Manciuria da parte del Giappone (1931) e all’ascesa al potere di Hitler (1933). Il duetto tra Tokyo e Berlino sfociò nel massacro della Seconda Guerra mondiale. Oggi come ieri, gli Stati Uniti non possono voltarsi indietro, ripiegarsi sui problemi interni, erigere la fortezza America e pensare di schivare le minacce del terrorismo, del risorgere preponte dell’antagonismo tra le nazioni, del riarmo e della proliferazione nucleare. The old world is back, il vecchio mondo è tornato e il fatto che sia arrivato un nuovo Presidente ai dittatori che proclamano di cancellare Israele dalla carta geografica interessa poco, anzi in presenza di messaggi equivoci e tentennamenti può essere un incoraggiamento, al punto che sui media iraniani oggi la vittoria di Obama veniva salutata con sospetta soddisfazione e speranza. 

McCain e il Gop da rifondare 

Questi quattro punti non sono affatto esaustivi, ma nella mia visione costituiscono le ragioni della vittoria di Obama e nello stesso tempo il suo banco di prova immediato. Gli stessi temi sono anche la causa della sconfitta di John McCain. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: McCain era il miglior candidato possibile per il Grand Old Party. I repubblicani escono da queste elezioni meritatamente ridimensionati e solo la tenacia e la statura morale di McCain hanno consentito ai repubblicani di uscire da questa battaglia con l’onore delle armi che gli ha tributato Barack Obama. Il Gop è in una crisi gravissima il cui culmine è stato raggiunto quando il partito durante le votazioni della legge per il salvataggio delle banche si è penosamente spaccato in tre tronconi: quelli favorevoli (i lealisti), quelli contrari per sincera visione ideologica (i liberali) e quelli che avevano paura di perdere il seggio (gli opportunisti). Uno spettacolo triste che ha reso la campagna elettorale di McCain ancora più difficile e attaccabile da un formidabile avversario. Un partito che non riesce a stare unito sul suo candidato alla Casa Bianca, il partito del Presidente uscente, non è da esaltare per la sua libertà di discussione interna, è un disastro politico al quale porre subito mano. Un partito che riesce a perdere lo storico scettro dei finanziamenti in campagna elettorale, che lesina il supporto al candidato alla Presidenza, che pur sapendolo unico candidato spendibile in una mission impossible lo costringe a volare su aerei di linea per spostarsi da uno Stato all’altro, quel partito è in coma. 

Quando McCain ha conquistato la nomination e si è guardato intorno, ha capito subito che l’establishment del Gop remava contro. Guardava infastidito alla sua personale vittoria interna. Eppure i segni della crisi del Gop c’erano tutti. Nella lunga campagna elettorale l’emersione di un outsider come Mike Huckabee era un chiaro segnale del distacco crescente tra la base e i vertici. I commentatori dei mainstream media e gli intellettuali conservatori guardavano accigliati Huckabee suonare il basso, intrigare la folla e inserire nella campagna elettorale elementi di sano e furbo umorismo, senza comprendere che quello era il segnale del terremoto imminente. Uno sconosciuto governatore dell’Arkansas rompeva le liturgie e gli schemi del Gop, restava in corsa per la nomination contro McCain, invocava l’aiuto di Dio (e Chuck Norris) per raccogliere i delegati e invece di interrogarsi sul perchè di questa straordinaria presenza si procedeva a liquidare la faccenda come un elemento di folclore. McCain invece aveva capito benissimo quello che stava accadendo alle sue spalle e quando si è trovato di fronte al dilemma del candidato alla vicepresidenza ha cercato un personaggio che avesse le stesse capacità di stupire e fare "movimento": Sarah Palin. 

C’è da scommettere che sarà lei il principale imputato della sconfitta. Il mastino con il rossetto, Sarah Barracuda sarà il bersaglio dei commentatori ieri ciechi e dopo la sconfitta pure sordi. E’ lei l’alce da abbattere al più presto per chi pensa di ereditare le spoglie del Gop. Grave errore. La Palin ha rianimato una base delusa dal clan Bush, ha un network che funziona e oggi è la donna venuta dal freddo, insieme a Mitt Romney, il candidato naturale a traghettare i repubblicani nel futuro. 

Fine dell’era reaganiana 

Quale futuro? Difficile da immaginare, ma la politica americana è aiutata dall’agenda istituzionale: tra due anni si terranno le elezioni di medio termine, prima boa da aggirare, tappa di una corsa che si chiama America 2012.  Sfida che i repubblicani non vinceranno se non aggiorneranno rapidamente il dizionario delle idee. Quello che salta fuori dal cilindro delle elezioni infatti è un Paese che sembra essersi risvegliato dopo aver subito un elettroshock. Non è nel volgere di una notte che l’America ha cambiato identità. La sensazione netta è che si sia chiusa una stagione cominciata nel 1980 con Ronald Reagan, reloaded da George Bush Sr, rivista in sax version da Bill Clinton e consumata dagli speroni di George Bush Jr. Non è in una pur lunga campagna elettorale che il Paese ha accantonato la tromba della Right Nation per passare al rap dell’Obama Country. E’ successo qualcosa di più profondo e proprio nell’America profonda. Rispetto alle presidenziali del 2004 passano ai democratici Virginia, North Carolina, Ohio, Missouri, Indiana, Florida, Colorado, New Mexico e Nevada. Un freddo cuneo blu penetra i Red States da Nord Est verso Sud Ovest, un’altra macchia blu spezza il cuore rosso dell’America, un dente azzurro spunta vicino alla California e morde da Ovest verso Est, un braccio blu si prolunga verso l’Atlantico e il Golfo del Messico. E’ la mappa non di un semplice cambiamento, ma di una rivoluzione. 

In questi anni ho cercato di capire che cosa stava accadendo in America. Conservo taccuini su taccuni di appunti, interviste, impressioni, epigrammi, istantanee e note personali. Ho visto George W. Bush battere prima Al Gore e poi John Kerry. Nessuna di queste due campagne elettorali aveva però il pathos, l’intensità, la bellezza e il valore di questa straordinaria corsa. Segno che la posta in gioco ieri era non solo la Presidenza degli Stati Uniti, ma la proiezione in una nuova dimensione dell’Era Americana. Comincia nel segno di Barack Obama e da oggi, con la fortuna del cronista, si comincia a raccontare un’altra Storia.

Mario Sechi è vicedirettore di Panorama