Con Obama tornerà la Realpolitik in Medio Oriente
03 Gennaio 2009
di Fouad Ajami
Il presidente Bush assunse il proprio mandato con la promessa di una “modesta politica estera”. Ma fu per sua fortuna, o destino, che ha visto consumarsi la gran parte della propria presidenza tra un’avventura e l’altra in quello che proprio l’amministrazione Bush ha chiamato Greater Middle East. Dalla passione del suo tour di commiato risulta chiaro come Bush sia riuscito a catturare il bug, la falla, il difetto strutturale di quella regione. Una regione che si è sforzata di andare verso di lui, mentre nel contempo egli stesso faceva funzionare la propria volontà e il potere che aveva a disposizione su quelle sue strade di coloni e di bombe.
Il presidente eletto Barack Obama, dal canto suo, ha lasciato intendere che il modo esterno non costituirà la sua preoccupazione principale e che il risanamento dell’economia statunitense risulterà vincitore su qualunque altra ricerca o tentazione. Sui paesi e i popoli del Medio Oriente, Mr. Obama se n’è stato zitto, se non addirittura indifferente. Si trovava nel Senato dell’Illinois quando una grave tempesta è passata sul mondo islamico. Ed è stato fortunato, come il suo segretario di Stato ci ha ricordato senza sosta, a essersi prodotto in un unico, solitario discorso sull’Iraq quando la minaccia s’era fatta sentire.
Nelle affermazioni di Obama sul mondo islamico c’è un tono distaccato, una sorta di consapevole astuzia. In parte, si tratta senza dubbio di un deliberato contrasto rispetto alla passione e al fervore di George W. Bush. Se Bush credeva di poter rimettere in sesto quella vecchia e frammentata regione, Obama lascia intendere una certa stanchezza nei suoi confronti, un’accettazione del suo ordine di potere. Se Bush aveva creduto di potersi inserire negli affari interni delle lontane terre islamiche, Obama e i suoi advisers per la politica estera auspicano un ritorno alla realpolitik e a una rassegnata accettazione dei modi delle autocrazie straniere. Abbiamo sbagliato, predica la visione del mondo di Obama, e siamo andati troppo oltre. Siamo andati troppo oltre il verdetto dell’11 Settembre, ora è tempo di fare la pace con quei regimi che abbiamo offeso durante gli anni di Bush. È la dottrina multilateralista scowcroftiana: altre terre, altri modi.
Poi, ancora, la reticenza mostrata da Obama sui territori in fiamme del mondo islamico. Si tratta di una reticenza che è in parte un fatto autobiografico. La fede di suo padre era la fede islamica. E poi, un candidato che porta Hussein come middle name non può permettersi una forte retorica sull’opportunità che la libertà possa sopravvivere in terra islamica. Al contrario, George W. Bush ha avuto sufficiente libertà ed è stato abbastanza fiducioso da sposare la causa della riforma e di un drastico cambiamento nel mondo islamico. In verità non è che sapesse poi molto di come andassero le cose in quelle terre, ma è da dire che neanche Woodrow Wilson lo sapeva. La sua dottrina sull’autodeterminazione nel dopoguerra e la dissoluzione dell’Impero Ottomano restano tuttora il più logico e rivoluzionario messaggio mai portato dall’America nelle terre dei vecchi imperi.
Lo stesso Wilson, il quale – giova ricordarlo – è stato castigato dalle conseguenze radicali e dall’impatto che la sua dottrina ha avuto, predicò il vangelo della propria autodeterminazione, come aveva detto, “senza la consapevolezza che le nazionalità esistono e che vengono verso di noi giorno dopo giorno”. Nella rosa di scelte che la storia apre, una “consapevolezza” approfondita può finire per essere sopravvalutata. Il mondo post Impero Ottomano non è stato più lo stesso dopo quel presidente americano che così poco ne sapeva. Un cerchio si è chiuso, tra quella politica wilsoniana e l’offensiva statunitense nelle terre arabe e islamiche operata da George W. Bush.
Una cosa di certo non ci sarà più, andrà via insieme a Mr. Bush quando si ritirerà a Crawford in Texas. Quella cosa sarà la sua “diplomazia della libertà”. Quella diplomazia che aveva sospinto le guerre in Afghanistan e in Iraq, quella diplomazia che aveva portato i siriani fuori dal Libano, dopo che questi ne avevano quasi distrutto la sovranità, mettendo a repentaglio gli alleati americani in Egitto e nella penisola araba. Quella diplomazia era andata per il meglio.
È stato uno spettacolo bizzarro, il tempo che ci siamo lasciati alle spalle. Un tempo che vedeva un presidente americano conservatore predicare il vangelo della libertà per le “terre oltre”, e che vedeva i suoi detrattori liberal dar voce a un profondo scetticismo sulle chance di sopravvivenza della libertà in ambienti tanto inospitali. Nulla è stato altrettanto illuminante sulla tempra liberal – e su quel che sarebbe venuto poi – di quando, nel dicembre del 2006, il vicepresidente eletto Joe Biden (allora l’uomo di punta fra i democratici in materia di politica estera) aveva parlato dei rischi che il fascino della libertà per le terre musulmane avrebbe comportato. Del presidente Bush aveva detto: “Ha questo concetto, sano ma ingenuo, che le nozioni occidentali di libertà possano essere facilmente traslate in quella parte del mondo”. Biden la sapeva lunga: aveva detto di aver messo in guardia il presidente sul fatto che il concetto di libertà del grande Ayatollah Al Sistani differiva “dal nostro concetto di libertà. Ritengo che il presidente creda ci sia un Thomas Jefferson o un Madison dietro ogni duna che non aspetta altro che saltar fuori. Ma non ce ne sono”.
Il corso della storia, poi, è in grado di fare a brandelli anche il più dettagliato dei briefing. Alla luce di questo, il nuovo team ci dice che non dovremmo provare alcun attaccamento nei confronti dei progressi che siamo riusciti a conquistare in Iraq. Non è questa né la motivazione né l’appello di Obama. Quella nazione – è implicito – è in grado di badare a se stessa. La nuova motivazione dovrebbe essere un ritorno alla lotta per l’Afghanistan. Così la raccontano i liberal: da un lato, la cattiva e unilaterale “war of choice” in Iraq, dall’altro, la “war of necessity” in Afghanistan, necessaria, buona e multilaterale. E così, le colombe in Iraq possono essere falchi sulla frontiera afgano-pakistana. I guru della strategia per i quali l’Iraq era uno Stato artificiale e senza speranza messo insieme da Gertrude Bell, Winston Churchill e T.E. Lawrence, possono anche cercare di ottenere la vittoria e arrivare alla costruzione di una nazione nelle impietose lande tribali dell’Afghanistan e del Pakistan. Ma se, nel nostro mondo di nazioni, esiste uno Stato artificiale, l’Afghanistan è ciò che più vi si avvicina. E se esiste un falso confine nazionale, sbeffeggiato dall’etnicità e da giuramenti storici, è quella Linea Durand tra Afghanistan e Pakistan disegnata dagli inglesi negli anni Ottanta dell’Ottocento che passa attraverso le terre dei Pashtun. L’Afghanistan può ancora ostacolare i piani del successore del presidente Bush, ostacolarli allo stesso modo in cui l’Iraq ha ostacolato lui.
È facile da immaginare quanto il nostro paese sarà indulgente nei confronti del nuovo team per la politica estera. L’orgoglio e la sicurezza di sé necessarie per le spedizioni in terre straniere sono stati devastati dallo sfacelo economico che ci ha colpiti. Tuttavia, delle buone maniere e della flessibilità dei regimi stranieri possiamo essere meno sicuri. La natura ha orrore del vuoto, e di certo chi porta con sé minacce non mancherà di farsi avanti. E la nuova amministrazione, con sua grande sorpresa, potrà anche scoprire che i nostri avversari non desiderano vedere un nostro ritiro dalle loro terre.
Gli iraniani, in realtà, prosperano sulla presenza americana nel Golfo Persico. E se ne nutrono. Sono loro che rappresentano la quintessenza della forza d’opposizione. Non sono in condizione di generare delle politiche proprie: la loro attività è fatta nient’altro che di attacchi sovversivi alla Pax Americana nella regione. L’appello dei critici del presidente Bush al dialogo con l’Iran si dimostrerà quello che è sempre stato: una patetica frode. Mentre il dramma americano che si attorciglia attorno all’ascesa di Obama non interessa neanche un po’ la teocrazia in quel di Teheran. Per loro, nel Golfo Persico, è sempre la stessa storia.
Abbiamo vissuto le conquiste e gli scoramenti dell’attivismo e dell’ambizione americana sulle coste straniere. Ora dietro l’angolo sono appostati i rischi legati alla cautela e alla reticenza, e nemici che potrebbero intravedere oltre il velo la nostra stanchezza e metterla alla prova. Il mondo non ha alcun obbligo di favorirci.
© Wall Street Journal
Traduzione Andrea Di Nino