Con Sarkozy gli Usa ritrovano la Francia
08 Novembre 2007
La due giorni americana
di Nicolas Sarkozy è stata caricata di notevoli aspettative. Il Presidente
francese, che non ha mai celato la sua stima e ammirazione per l’american way of life, si è fatto
precedere da dichiarazioni inequivocabili. «Voglio riconquistare il cuore degli
americani» e, come ripetuto dal portavoce dell’Eliseo David Martinon:
«obiettivo primario del Presidente sarà consacrare il viaggio al ritrovarsi
definitivo tra Francia e Stati Uniti dopo la crisi del 2003». Anche alcuni
indizi del cerimoniale hanno immediatamente fatto pensare al carattere storico
e comunque non consueto della visita. Da Washington hanno insistito
sull’importanza del legame Usa-Francia, sottolineandone il valore storico fondativo
che risale al sostegno francese nella lotta di indipendenza dalla corona
britannica e dunque implicitamente precede la stessa special relationship con Londra.
Per altro la scelta di
concludere la visita con un colloquio privato tra Bush e Sarkozy a Mount
Vernon, storica residenza di George Washington, non ha fatto altro che
confermare questa tendenza.
Se dal piano dei simboli,
per nulla scontati né da sottovalutare in politica, si passa a quello della
concretezza, la scelta americana di dare un surplus di risonanza alla visita
dell’inquilino dell’Eliseo ha ragioni anche più pragmatiche. La leadership di
Bush, in difficoltà nel rapportarsi con alcuni storici alleati (su tutti il
Pakistan e la Turchia),
ha trovato nella Francia di Sarkozy un vero alleato su molte questioni-chiave
come l’Iran, il Kosovo, l’Afghanistan e la Birmania. In generale poi,
mentre Brown è parso impegnato, soprattutto per ragioni di politica interna, a
distanziarsi dalla condotta filo-americana di Blair, e Merkel (attesa venerdì a
Washington) su alcuni dossier come quello iraniano, invischiata nella sua
Grande Coalizione, fatica ad esprimere una visione coerente, il teorico della rupture transalpina diventa il vero
punto di riferimento di un ritrovato e centrale asse euro-atlantico. Comunque egli
rappresenta un punto di riferimento imprescindibile in un’epoca in cui, anche
al Dipartimento di Stato, sono alla ricerca di sani e concreti rapporti
bilaterali.
Ma se il punto di vista
da Washington viene spostato su Parigi si può notare che il viaggio di «Sarkò
l’americano», l’ottavo Presidente francese a parlare davanti al Congresso
(primato assoluto davanti alla Gran Bretagna, ferma a sette Primi Ministri), per
essere compreso a pieno deve essere inserito in un complessivo progetto di
ristrutturazione della proiezione internazionale di Parigi, avviata
all’indomani della sua elezione. Senza sottovalutare la buona intesa personale
tra i due leader, Sarkozy è un politico troppo avveduto per lasciarsi chiudere
in un rapporto esclusivo con un Presidente come Bush, che ha legato i suoi due
mandati alla Casa Bianca a decisioni spesso sofferte e divisive, ma soprattutto
è a fine mandato ed in calo nei sondaggi. Inoltre, nonostante un clima non
certo paragonabile a quello del 2003-2004, come testimoniato dal recente
sondaggio France-Etats-Unis régards
croisés, Sarkozy non può sottovalutare che solo il 30% dei cittadini
francesi «dichiara di provare simpatia per gli Stati Uniti», con un trend molto
negativo dato che nel 1988 la cifra era il 54%.
La «scommessa americana»
di Sarkozy è stata dunque impostata su un triplice binario. Innanzitutto
rottura rispetto all’era Chirac, non solo e non tanto da intendersi in
relazione alla presa di posizione francese sulla guerra in Iraq. In generale
Sarkozy ha ribadito la sua intenzione di avere relazioni «senza complessi» con
l’alleato americano. Questo significa sanare un grande deficit dei 12 anni di
presidenza Chirac: l’incapacità di offrire una lettura riadattata del gollismo,
soprattutto a livello di politica estera. E qui veniamo al secondo asse della
condotta di Sarkozy: prendere atto che il gollismo, come dottrina di politica
internazionale, è frutto essenzialmente del clima di Guerra Fredda del XX
secolo. Nel nuovo secolo gli spazi per terzaforzismi e o per identità costruite
per contrapposizione sono davvero esigui e rischiano di relegare Parigi ad un
ruolo globale marginale. Infine, terzo ed ultimo dato, Sarkozy ha compreso che
nel mondo post 11 settembre 2001, dominato dalla lotta al terrorismo globale,
il leader politico realista ed illuminato deve spendersi, come sostiene Pierre
Hassner, «per elaborare una teoria dell’antagonismo incompleto e del partenariato
imperfetto» (Le Monde, 03-10-2007).
Ebbene, nel solenne
discorso pronunciato di fronte al Congresso, interrotto ben ventitre volte
dagli applausi a scena aperta, Sarkozy ha condensato questa sua visione di
politica estera. Da un lato ha innanzitutto ribadito la centralità dei rapporti
euro-atlantici, sottolineando il carattere complementare e non alternativo di
Nato e politica europea di difesa. Se la sua Francia è pronta a ricucire lo
strappo di De Gaulle del 1966, e quindi rientrare a tutti gli effetti nel Patto
Atlantico, l’alleato americano deve prendere atto che «la Nato non può essere
dappertutto e l’Unione europea deve essere nelle condizioni di agire». La
solidarietà è poi stata totale per quanto riguardala lotta al terrorismo
globale: «gli Usa potranno contare sempre sulla Francia nel combattere il
terrorismo» e, in particolare sul fronte afgano, esiste un solo Occidente in
lotta contro la minaccia fondamentalista. Infine, terzo punto chiave del suo
lungo e appassionato intervento, la questione Iran. Gli Usa hanno al loro
fianco la Francia
come alleato europeo privilegiato su questo tema. «Il dialogo e l’autorevolezza
di Parigi su questo dossier sono garantiti proprio da una contemporanea
fermezza nel non transigere sul nucleare di Teheran».
Ma la forza e il
significato dell’intervento sono anche da cogliere nella convinzione che il
rapporto con l’alleato debba essere un rapporto «senza complessi» o, come
ribadito nel corso del discorso programmatico di politica internazionale di
fine agosto, di «amicizia, ma non di appiattimento sulle posizioni americane».
Di conseguenza un significativo silenzio sull’Iraq, a dimostrazione che la
scelta del 2003 non