Con WikiLeaks gli antioccidentali festeggiano la “fine della politica”

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Con WikiLeaks gli antioccidentali festeggiano la “fine della politica”

21 Dicembre 2010

Julian Assange è diventato una vera e propria icona popolare. Rolling Stone gli dedicherà la copertina del numero italiano di gennaio in veste di rockstar dell’anno. Nel frattempo online il fondatore di Wikileaks si è guadagnato 382.000 voti dai lettori del Time nella corsa al titolo di “uomo dell’anno”. Sono lontani i successi di Obama, soppiantato da un nuovo fenomeno di massa. Uno meno positivo ma altrettanto attraente, che ha avuto il dubbio merito di promuovere il fenomeno dell’information leakage.

La semantica è importante per capirne la genesi: se per rockstar o uomo dell’anno intendiamo qualcuno in grado di generare tendenza rompendo gli schemi, di stravolgere l’ordine delle cose andando contro le regole, forse Assange è l’uomo adatto a incarnarne questa tipologia. Nessuno stupore dietro al dato oggettivo: Assange genera consenso. La domanda semmai è “perché” ci riesca.

Non è difficile leggere una tendenza secolarista nell’affermazione di Wikileaks nell’agone pubblico occidentale. Assange si è fatto portavoce della dietrologia più tradizionale, fatta di chi pensa all’Area 51 come alla prova dell’esistenza aliena. Di chi crede che dietro ogni guerra ci sia solo un qualche interesse economico. Assange attraverso Wikileaks ha concretizzato i peggiori incubi della gente comune, fondando con prove indiziarie i timori popolari. Poco importa verificare i fatti e ancora meno interesse si nutre per le ripercussioni globali di tali rivelazioni. L’importante è sapere.

Il contesto occidentale è l’ideale per l’affermazione di questa tendenza. L’annientamento del principio di legalità, il desiderio di superare ogni limite imposto dal buon senso e dal principio democratico della riservatezza, sono stati soppiantati da quel diritto solo in apparenza democratico di sbirciare in documentazioni private. L’autocompiacimento che deriva dalla lettura delle agende dei potenti, è pari solo alla soddisfazione di avere infine le prove di quanto di male si pensava su di loro.

Un caso nuovo, per una vecchia parola. La dietrologia, o teoria del complotto come preferiscono in molti, altro non è che una “secolarizzazione di una superstizione religiosa” per usare le parole di Popper. Abbandonato Dio, occorre trovare un’altra causa ai mali del mondo. Lobbies e partiti politici sono i capri espiatori ideali, ancora meglio lo sono i singoli uomini di potere. Con le loro debolezze e i loro peccati, più o meno veniali, incarnano alla perfezione il nemico invisibile che ha dichiarato guerre, distrutto l’ambiente, costretto a mangiare hamburger e indossare jeans.

Da qui il consenso e l’approvazione per documentari-verità o siti internet “scomodi”. Per personaggi come Julian Assange, portavoce di ciò che la gente crede di sapere ma non ha le prove per dimostrare. Testimoni-paladini di una etica hacker fraintesa e, spesso volutamente, male interpretata.

L’ironia sta nel fatto che l’Occidente crei da sé le proprie nemesi. D’altro canto la dietrologia stessa è un concetto tipicamente occidentale. In paesi più a est di noi in pochi si sono fatti scalfire dalle rivelazioni di Wikileaks insinuando persino che l’arresto di Assange dimostri, infine, l’antidemocrazia occidentale.
L’esperienza Wikileaks ha invece solo esemplificato le due domande latenti del mondo occidentale, due vulnus aperte e sanguinanti nel fianco delle democrazie liberali: quanto siamo sicuri di noi stessi da tollerare tali attacchi? Quanto la democrazia, principio guida occidentale, può resistere non più in quanto garante di diritti ma come assenza di limiti all’espressione personale?

Assange si colloca in questo solco, godendo di enorme popolarità tra i giovani e presso l’intellighenzia internazionale, che lo ha accolto come una sorta di benedizione per gli USA e per l’Europa.

Finora è stato solo capace di creare fraintendimenti e imbarazzo. In questo senso sì, Assange è la vera rockstar del 2010. La vera questione sta nel decidere quanto costui sia portatore di una verità, qualsiasi essa sia. E quanto questa verità influisca sul mondo quotidiano del cittadino-tipo, quello che non frequenta Wikileaks, non sa bene cosa sia un hacker e non è interessato a sapere se un funzionario americano consideri Sarkozy un “imperatore nudo”.

La portata del fenomeno è preoccupante. L’alternativa è che questa spinta all’attivismo popolare, soprattutto giovanile, si incanali verso fini diversi. E che l’incalzante cultura open nata dal Web 2.0 continui a cambiare le cose anziché sovvertirle.