Confindustria critica troppo e propone poco per lo sviluppo del Paese
10 Maggio 2011
L’assise della Confindustria di Bergamo si è chiusa con un discorso di Emma Marcegaglia che si può definire "di transizione". La presidente uscente ha lasciato aperte le porte alle diverse candidature in campo, mettendo insieme critiche al governo che possono essere gradite ai candidati centristi e, nello stesso tempo, prendendo una posizione a favore dei contratti collettivi di lavoro aziendali che comporta un distacco dalla linea storica del contratto nazionale uniforme per tutti, basato sull’unità dei sindacati, che è quella di cui nel passato furono alfieri gli aspiranti presidenti centristi.
La linea dei contratti aziendali, ovviamente, ha dalla sua parte rilevanti argomenti di produttività, che premono a chiunque sia impegnato nella sfida dei mercati globali. Ma implica, oggettivamente, di assumere una posizione contraria a quella della Cgil e della Fiom, e di allinearsi alla politica del lavoro che sta portando avanti il Ministro Sacconi. La tesi per cui la Confindustria è apolitica non regge. Infatti, le linee di politica economica, riguardanti la contrattazione collettiva e più in generale le politiche del lavoro e del welfare, hanno una connotazione “politica”. E chi succederà ad Emma Marcegaglia al vertice di Confindustria avrà il compito di scegliere una linea al riguardo in modo chiaro. Ciò comporterà anche un chiarimento nello stesso schieramento politico.
Infatti, le linee di politica del lavoro, sostanzialmente, sono due soltanto. E i centristi dovranno chiarire se scelgono quella che attualmente porta avanti Sacconi o quella per cui si batte Susanna Camusso: tertium non datur. Ma il taccuino del nuovo presidente contempla anche altri appuntamenti a cui egli non potrà mancare. Il primo riguarda la politica della ricerca delle grandi e medie imprese italiane. Infatti è vero che l’Italia ha bisogno di incrementare i suoi impegni per la ricerca, riguardante il progresso tecnologico. I rapporti fra spese nazionali complessive di ricerca e Pil non vanno sopravvalutati, dato che inclusione di voci di costo in tali spese nella contabilità delle imprese è molto influenzata dalle conseguenze ai fini del carico tributario.
Dove vi sono definizioni fiscali restrittive, le spese per la ricerca risultano più basse, che dove le definizioni fiscali sono permissive. Ma rimane pur sempre vero che la percentuale dell’Italia nelle spese della ricerca sul Pil è la metà di quella media dei paesi dell’Ocse. In Italia, dagli ultimi dati, risulta che le spese per la ricerca sono solo lo 1,2% del Pil contro la media Ocse del 2,4. E la Germania nel 2009 in piena crisi, è arrivata al 2,8, avvicinandosi al traguardo del 3%, che gli stati membri dell’Unione europea dovrebbero raggiungere entro il 2015, secondo i programmi di Bruxelles. Noi ne siamo lontani, ma la responsabilità è in larga misura degli industriali e, in particolare , delle imprese maggiori. Mentre la quota privata delle spese per la ricerca, nella media Ocse è il 64%, in Italia è meno della metà, ossia il 42%. E per le grandi imprese l’Italia, nella classifica Ocse, è al 21esimo posto, mentre per le piccole e medie imprese è al 14esimo.
La Confindustria dovrebbe formulare un programma concreto di priorità della ricerca, a cui indirizzare la spesa pubblica, in appoggio alle iniziative private. Sino ad ora ciò non è accaduto. Il Cnr si è occupato delle priorità nel settore universitario, ma non ha potuto contare su un’interfaccia, nel mondo delle imprese, in grado di indicare gli ambiti in cui esse ritengono di poter raggiungere risultati di interesse aziendale e, insieme, generale. Emma Marcegaglia, probabilmente sollecitata dal risultato inatteso del referendum nella ex Bertone, in cui lo 83% dei votanti si è espresso per il contratto collettivo propugnato dalla Fiat, ha sostenuto che con la strumentazione contrattuale nazionale attuale possiamo avere contratti aziendali più avanzati, deroghe. E addirittura aziende che fanno ‘opting out’, che decidono di avere un contratto aziendale al posto di quello nazionale.
Il prossimo presidente di Confindustria dovrà rinegoziare il contratto collettivo nazionale triennale dei metalmeccanici che scadrà nel 2012. La filosofia tedesca dei contratti collettivi nazionali è che essi sono uno schema derogabile in tutte le sue parti, tranne quelle che recepiscono norme di legge. Il paradigma italiano originario era quello per cui la contrattazione periferica è integrativa. Lo schema del contratto del 2010 va al di là di questa impostazione, avvicinandosi parzialmente al modello tedesco. Il nuovo contatto nazionale 2013-15 dovrebbe fare altri passi avanti in questa direzione. Ciò appare evidente, se si considera che Fiat auto ha dovuto uscire da Confindustria per essere certa di poter applicare il suo nuovo contratto aziendale. E’ ovvio che Confindustria non ha interesse alla fuoriuscita di industriali dal suo ambito: preferisce l’opting out dal contratto nazionale all’opting out da Viale dell’Astronomia. Ma sino ad ora la Cgil, contro questa linea, ha fatto resistenza anche con ricorsi giudiziari. La Confindustria intende spalleggiare le imprese nell’appello contro le decisioni di primo grado che danno ragione a Cgil?
C’è anche un ulteriore tema: lo sviluppo del Mezzogiorno. Emma Marcegaglia ha criticato il bonus fiscale per le assunzioni nel Sud contenuto nel decreto sullo sviluppo approvato dal governo, sostenendo che è una misura elettoralistica che si presta ad abusi. Una critica sbagliata perché il Sud ha bisogno di esoneri fiscali al posto di sovvenzioni. Gli esoneri tributari sono automatici e vanno a diminuire i costi del lavoro e degli investimenti o a ridurre la potatura fiscale degli utili di chi produce. Le sovvenzioni dei programmi comunitari vanno anche a chi riesce a farsi largo, fra i vari domandanti, mediante l’approvazione di pratiche regionali complesse da parte della burocrazia e degli organi politici che vi sovrintendono. E non è detto che le sovvenzioni vadano a chi produce, anziché a chi finge di produrre. Semmai occorre accrescere questi sgravi tributari per combattere l’economia sommersa.
Ma a questo scopo, per il nuovo vertice della Confindustria, si presenta un’altra sfida: quella del federalismo contrattuale, ossia dei contratti differenziati per le diverse aree geografiche. Se si considera il divario di produttività fra le imprese del Mezzogiorno e la media nazionale e lo si confronta con il divario salariale fra le due aree si nota che il primo supera il secondo. I salari del Sud non seguono la produttività del Sud. Da ciò consegue che spesso si rinuncia a produrre e a investire (salvo con i sussidi pubblici) o si ricorre all’economia sommersa. D’altra parte il costo della vita nel Mezzogiorno è molto inferiore che al Nord. E ciò vale in particolare per i generi alimentari, l’affitto o la proprietà dell’alloggio, le spese per elettricità e riscaldamento, i servizi. In altre parole, il potere d’acquisto dei redditi medio bassi e bassi è sensibilmente inferiore a quello del Nord d’Italia. E ciò contribuisce a spiegare anche perché le paghe dell’economia sommersa sono, generalmente, inferiori ai minimi contrattuali dell’economia ufficiale. Sino ad ora gran parte dei discorsi del capo della Confindustria relativi al fatto che in Italia la crescita del Pil è “troppo bassa”, hanno fatto riferimento a ciò che il governo dovrebbe fare per aumentarlo. Vorrei, però, ricordare una frase di John F. Kennedy: "Non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese".
I vertici confindustriali dovrebbero dire che cosa intendono fare per l’Italia in merito alla ricerca, al progresso nei contratti di lavoro flessibili di livello aziendale e alla difesa dei diritti delle imprese presso la magistratura. E poi ancora in merito alla rinuncia alle sovvenzioni per le imprese in cambio delle riduzioni di imposte. E in fatto di nuovi investimenti nel Mezzogiorno, pur nell’ambito della richiesta del federalismo contrattuale. Ciò, anche a costo di litigare con Susanna Camusso.