Conflitti etnici e molto altro, che succede in Kirghizstan?

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Conflitti etnici e molto altro, che succede in Kirghizstan?

25 Giugno 2010

Alla vigilia del referendum costituzionale del 27 giugno, il governo ad interim che ha assunto la guida del Kirghizstan in seguito al crescendo delle contestazioni popolari che hanno indotto alla fuga il presidente Kurbanbek Bakiev, è alle prese con un ulteriore inasprimento della situazione e con una terribile emergenza umanitaria in atto al confine con l’Uzbekistan. Il primo appuntamento elettorale – al quale seguiranno quelli del rinnovo del parlamento il prossimo ottobre e dell’elezione del presidente nel 2012 – appare quindi contrassegnato da un clima politico fervente e carico di luci e ombre, al quale fanno da scenario preoccupanti strascichi di instabilità.

Grazie alla mediazione di OSCE, Russia e Stati Uniti, il governo ad interim ha consentito che Bakiev lasciasse il paese. Il 15 di aprile, una settimana dopo lo scoppio dei disordini che lo hanno indotto ad abbandonare la capitale Bishkek, il presidente ha rassegnato le dimissioni per poi partire alla volta del vicino Kazakhstan, tappa intermedia per la Bielorussia, dove tuttora si rifugerebbe. Nella sua città natale Jalal Abad e nella vicina Osh, nella regione meridionale del paese, gruppi di fedelissimi al suo clan hanno continuato a protestare contro il cambio al vertice dello stato, lasciando maturare una serie di pericolose reazioni a catena tra la popolazione locale, etnicamente eterogenea. Intanto, allo strascico di tensioni innescatosi alla sua partenza, facevano da contraltare altre dimostrazioni a Bishkek, organizzate allo scopo di far trasmettere dalla televisione nazionale la protesta per la fuga di Bakiev e degli uomini chiave degli apparati di sicurezza (uno dei quali era suo figlio Marat), ritenuti responsabili delle centinaia di morti avvenute nei giorni precedenti.

Il precipitare degli eventi nell’area di Osh e Jalal Abad ha rappresentato un campanello d’allarme proprio nell’area transfrontaliera della valle del Ferghana, la più critica e densamente popolata di tutta l’Asia Centrale (10 milioni di persone su 22mila chilometri quadrati). Qui si concentra una ricchezza di acqua e di terre coltivabili che ha attratto un grande massa di abitanti, oggi per lo più appartenenti alle etnie uzbeka, kirghiza e tagika, indistintamente mescolate e residenti sui tre versanti dall’artificiosa frontiera. Dissolta l’Unione Sovietica, all’interno della quale le linee di confine decise a tavolino da Stalin perdevano in gran parte il proprio senso di separazione e divisione in nome della comune appartenenza alla federazione, la questione delle frontiere è prepotentemente riemersa, scatenando tensioni annose e di difficile soluzione. Ci è voluto l’intero ventennio seguito all’indipendenza per sanare le dispute bilaterali e per sminare lunghi tratti di confine comune.

La convivenza tra le diverse etnie residenti nella valle è stata resa via via più complessa essenzialmente da due fattori: la spinta nazionalistico-identitaria delle nuove realtà indipendenti che ha cercato di annullare le differenze delle enclave multietniche sul proprio territorio e la fine del sistema di fattorie collettive che ha scatenato una vera e propria lotta per la terra e le risorse. Inoltre, con l’indipendenza si è verificata in Kirghizstan l’urbanizzazione dei contadini della valle che si sono insediati nelle città, dove la vita economica veniva gestita dagli uzbeki, tradizionalmente i mercanti della valle. Di qui un’ulteriore competizione anche per le risorse delle città.

Ritenuta potenziale polveriera della regione anche a causa di un sentimento religioso islamico che appare sentito e radicato più che in altre aree, la valle del Ferghana rappresenta un sorvegliato speciale, una sorta di vulcano dormiente pronto a esplodere e a contagiare col suo ribollire l’intera regione. Che si tratti di timori fondati o di eccessivo allarmismo certo è che il gran numero di uzbeki che nell’ultimo mese si sono spinti dal Kirghizstan verso il confine con l’Uzbekistan ha scatenato una crisi umanitaria di enorme portata.

Un precedente si era verificato nel maggio del 2005, quando, in seguito ai disordini nella città uzbeka di Andijan, duramente repressi dalle forze di polizia, una gran massa di popolazione si era spinta oltre il confine col Kirghizstan in cerca di rifugio. Da qui l’Alto Commissariato per i Rifugiati ne aveva curato il transito in Romania e poi il trasferimento negli Stati Uniti. Ora, invece, il movimento della popolazione avviene in senso opposto e gli uzbeki fuggono nella porzione di Ferghana che si trova in Uzbekistan.

Ancora prima, nel 1999 centinaia di aderenti al Movimento Islamico dell’Uzbekistan avevano occupato villaggi kirghizi dai quali sferravano attacchi contro l’Uzbekistan, per poi venire fermati dalle forze kirghize, con il sostegno di quelle uzbeke e kazake; mentre nel 1990 scontri a Osh tra uzbeki e kirghizi erano stati sedati con l’intervento delle forze russe.

A quanto riferiscono fonti di Radio Free Europe/Radio Liberty, mentre nelle città kirghize di Osh e Jalal Abad si cerca di tornare alla normalità, permane da parte della popolazione uzbeka il forte timore di poter essere ancora vittima di violenze da parte delle forze di polizia, di etnia kirghiza, accusate di veri e propri massacri. Pertanto, le barricate erette nei sobborghi uzbeki vengono smantellate con riluttanza da quella parte di popolazione che si sente ancora sotto assedio.

La prova che il governo ad interim si è trovato ad affrontare nell’ultimo mese è stata superiore alle proprie forze: contrapponendo alla centralità del clan Bakiev un pluralismo esasperato, che rende ciascun membro del governo portatore di una visione propria e di prerogative individuali (che secondo talune intercettazioni rese pubbliche risulterebbero anche orientate a metodi non dissimili da quelli corrotti della precedente leadership) e delegando alle forze di polizia in loco la soluzione delle violenze iniziate il 10 giugno tra gruppi uzbeki e kirghizi, attribuite a provocatori assoldati da Bakiev, il governo ha dato prova di disunione e di scarsa aderenza sul territorio. Intanto, 300mila sfollati interni, 100mila uzbeki fuggiti nei campi profughi allestiti in Uzbekistan e 2mila morti rappresentano il bilancio degli scontri interetnici, con la minoranza uzbeka costretta alla fuga oltre confine, mentre le autorità kirghize riferiscono di aver arrestato 12 provocatori degli scontri.

Le sorti di quanto sta avvenendo in Kirghizstan rappresentano una seria preoccupazione per gli Stati Uniti, che hanno in locazione la base aerea di Manas, nei pressi della capitale kirghiza di Bishkek, snodo essenziale per il transito dei rifornimenti alla missione in Afghanistan. Al di là degli aiuti già promessi e di altri a favore della popolazione sfollata, comunque il presidente Obama chiede che qualunque iniziativa nel paese venga condotta sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Dal canto suo, la Russia si trova di fronte ad una prova decisiva per la propria credibilità regionale. Pur avendo mantenuto la parola riguardo al sostegno per la realizzazione di una centrale idroelettrica di strategica importanza per il Kirghizstan, permane il dilemma di un possibile intervento della CSTO, l’organizzazione regionale di sicurezza che riunisce sotto la guida russa le repubbliche centroasiatiche (escluso il Turkmenistan), l’Armenia e la Bielorussia. Benché il dispiegamento delle forze a contenimento di disordini interni rientrerebbe proprio negli ambiti di impiego della CSTO, la Russia appare riluttante nel decidere lo schieramento di uomini armati sul territorio di uno stato ex sovietico, per non creare precedenti scomodi e irritanti per i suscettibili vicini del Kirghizstan. Per quanto si tratti di un’organizzazione regionale, infatti, l’apporto e la guida russa permangono determinanti e non consentono di percepire gli sforzi cooperativi come effettivamente tali, lasciando l’impressione, anche tra i membri, che sia soprattutto la Russia a dettare condizioni, finalità e modus operandi.

Intanto, l’appuntamento elettorale per l’approvazione del nuovo testo costituzionale resta fissato per il 27 giugno e l’OSCE si appresta a schierare sul campo i propri osservatori.