Considerazioni sulla scuola di un professore di scuola

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Considerazioni sulla scuola di un professore di scuola

Considerazioni sulla scuola di un professore di scuola

10 Settembre 2007

Ormai, come era inevitabile, sul pacchetto-scuola del dottor
Giuseppe Fioroni (per il quale potrebbe valere il detto evangelico “Medico cura
te stesso”, inteso in senso politico, ovviamente, visto che il 99 per cento dei
mali della scuola italiana provengono dalla cultura a cui si ispira la
stragrande maggioranza dei partiti che formano il governo di cui egli è
ministro) è stato detto tutto e il contrario di tutto. Vorrei aggiungere, senza
alcuna pretesa di organicità, due o tre considerazioni che ritengo ispirate soltanto
al buon senso. Primo: il Ministro invoca il ritorno al criterio del merito e
poi strepita per il fenomeno della dispersione scolastica. Cerchiamo di
chiarire il problema: nessuno deve abbandonare la scuola per ragioni
riconducibili a condizionamenti economici o sociali; ma se ogni studente che
inizia un percorso di studi lo deve necessariamente concludere,
indipendentemente dai risultati ottenuti, dove va a finire il merito?

E’ una
questione che vorrei comprendere meglio, proprio sul piano della logica. Uno
studente va male a scuola, ma si vuole comunque che giunga a ottenere il titolo
di studio, perché sennò si materializza lo spauracchio della dispersione e
dell’abbandono: c’è qualcosa che non quadra. Qualcuno mi spieghi dove sta
l’inghippo e, se c’è, mi indichi la soluzione. La seconda considerazione muove
dalla lettura di un articolo in cui Giampiero Mughini si lamentava giustamente
del fatto che una sua richiesta di 1500 euro per partecipare a un incontro era
stata ritenuta troppo elevata dagli organizzatori, che invece non avevano
battuto ciglio di fronte a una cifra almeno dieci volte superiore pretesa da un
cantante. Dopo aver ricordato che 1500 euro sono lo stipendio mensile di molti
insegnanti, dico che fino a quando non si chiarirà la questione del rapporto
fra denaro e cultura, anche la scuola ne risentirà negativamente. Possiamo
continuare in eterno a ripetere la bella frase latina (e così abbiamo salvato
anche la classicità) “carmina non dant panem”? I miei alunni sanno che un professore
guadagna in una vita quello che Valentino Rossi guadagna in un mese (eventuale
evasione fiscale a parte), riuscendo pure a laurearsi “honoris causa”: a molti
di loro va benissimo così, e anzi si arrabbiano se una lezione di matematica
costa trenta euro. E se poi un vocabolario di italiano viene pagato quanto un
biglietto per un concerto di Vasco Rossi, i genitori scendono sul piede di
guerra. Vi sembra educativo tutto questo?

Torno infine sulla questione del
merito. Tanto per sgombrare il campo da equivoci, dico subito che sono un convinto
sostenitore del “privato”, anche nel mondo della scuola. Vorrei una sana
competizione fra istituti scolastici, come alcuni chiedono. Però, per piacere,
sia il “privato” a dare per primo il buon esempio: scelga e premi davvero i
migliori e i più meritevoli. Diciamo la verità: non sempre è così; non sempre
basta dire “privato” per veder scomparire i terribili difetti del “pubblico”.
Truccare o comunque addomesticare un concorso universitario facendolo vincere a
chi non lo merita, oltre che un reato, è cosa che fa del male a tutta la
società. Ma anche non riconoscere la bravura di qualcuno e privilegiare in modo
arbitrario una persona immeritevole, giustificandosi col sostenere che si sta
agendo in ambito privato, crea comunque un clima di sfiducia, quel clima che fa
dire a molti che è inutile affannarsi, tanto sono tutti uguali, sinistra e
destra, pubblico e privato. E che alla fin fine vanno bene sia Francia che
Spagna, purché se magna!